Tod’s, ombre sul lusso: «Condizioni di para-schiavitù» negli opifici della filiera. La procura chiede il commissariamento
Operai cinesi pagati 2,75 euro l’ora, turni notturni, dormitori improvvisati: l’inchiesta della procura di Milano scuote il gruppo Della Valle e il mito del made in Italy
La facciata patinata del lusso italiano mostra crepe profonde. Scarpe perfette, cucite a mano, fotografate sulle riviste di moda, sfilano accanto a parole come “sfruttamento”, “caporalato”, “condizioni ottocentesche”. E nel mezzo c’è un nome che pesa: Tod’s, il marchio dei Della Valle, sinonimo di artigianalità e successo internazionale, ora travolto da un’indagine della procura di Milano che getta ombre pesanti sulla filiera produttiva. Secondo il pm Paolo Storari, dietro la lucentezza del pellame si nascondono turni infiniti, dormitori-laboratori e operai cinesi costretti a lavorare anche a Natale per 2 euro e 75 centesimi l’ora.
Il magistrato ha chiesto la nomina di un’amministrazione giudiziaria per la Tod’s Spa, accusando l’azienda di aver “agevolato colposamente” un sistema di sfruttamento sistemico nella propria catena di subfornitura. Tod’s non è indagata, ma la richiesta – formalmente respinta dal Tribunale di Milano e ora al vaglio della Cassazione – pesa come un macigno sul marchio che per decenni è stato il simbolo del made in Italy “pulito”, quello delle mani sapienti e del lavoro ben fatto.
Le carte dell’inchiesta raccontano altro: turni a ciclo continuo, produzioni senza orari, ritmi forsennati. Nei capannoni della provincia marchigiana e in altri centri collegati alla filiera sarebbero stati individuati “opifici-dormitorio” dove gli operai vivevano e lavoravano nello stesso spazio, cucendo scarpe e borse per 12 o 14 ore di fila. «Pagavano 150 euro al mese per dormire in camere fatiscenti messe a disposizione dai datori di lavoro», si legge nei verbali del Nucleo Ispettorato del Lavoro. Molti erano irregolari, quasi tutti connazionali dei titolari dei laboratori. Dormivano su brandine a pochi metri dalle macchine da cucire, con finestre sbarrate, nessun giorno di riposo e una sola regola: produrre, produrre sempre.
L’immagine che emerge è quella di una catena produttiva senza sosta, un ciclo h24 in cui la notte diventa il momento più frenetico, perché di notte nessuno controlla. “La produttività cresce nelle ore notturne e festive, quando la probabilità di ispezioni è pari a zero”, scrive il pm Storari in una nota di febbraio allegata alla richiesta di amministrazione giudiziaria. “I lavoratori sono sottoposti a condizioni alloggiative degradanti e turni massacranti, in un contesto di para-schiavitù che impone un intervento immediato per evitare conseguenze più gravi alle vittime dello sfruttamento”.
Un linguaggio durissimo, che non lascia spazio alle sfumature. E che arriva a colpire un gruppo che nel 2023 ha chiuso il bilancio con 1,1 miliardi di fatturato e 50 milioni di utile netto, consolidando la posizione di Diego Della Valle tra i principali imprenditori del Paese. L’inchiesta non mette in discussione la qualità dei prodotti, ma il sistema di subappalti, spesso invisibile, che consente alle grandi maison di delegare parte della produzione a piccoli laboratori, dove la catena del controllo si spezza. È lì, nei capannoni lontani dalle passerelle, che si anniderebbe il vero cuore oscuro del made in Italy: quello dove la legge si piega all’urgenza della consegna.
Per la procura non si tratta di un caso isolato, ma di un modello industriale che ha smarrito il senso del limite. Tod’s non avrebbe partecipato consapevolmente al sistema di sfruttamento, ma non avrebbe esercitato la vigilanza necessaria. L’accusa parla di “agevolazione colposa”, cioè di un’omissione di controllo che, pur senza dolo, consente che la violazione avvenga. Una colpa che per un gruppo quotato e simbolo dell’eccellenza italiana pesa quasi più di una condanna.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso è intervenuto a stretto giro, cercando di arginare l’ondata: «Serve una norma che obblighi ogni brand a certificare la piena sostenibilità della propria filiera, ambientale e lavorativa. Solo così possiamo mettere in sicurezza la reputazione della moda italiana e difendere chi lavora onestamente». Urso ha annunciato un disegno di legge per introdurre una sorta di “bollino di legalità” preventivo per i grandi marchi del lusso: una certificazione obbligatoria che garantisca che nessuna parte della filiera si regga su lavoro nero, sfruttamento o caporalato.
Un’iniziativa che arriva dopo una lunga scia di scandali nel settore: Gucci, Dior, Fendi, Giorgio Armani, Louis Vuitton – tutti, in tempi diversi, sono finiti sotto la lente degli ispettori per episodi simili. Ma Tod’s, con la sua immagine austera, familiare, profondamente italiana, fa più rumore. Perché colpisce l’idea stessa di eccellenza. Colpisce il mito rassicurante del “prodotto italiano” come antitesi del lavoro povero.
La Cassazione dovrà ora decidere se accogliere la richiesta della procura e disporre la misura di amministrazione giudiziaria. Se accadesse, l’azienda verrebbe affiancata da un commissario indipendente incaricato di verificare e correggere le procedure di controllo interno. Una misura straordinaria, già applicata in passato a brand minori, che avrebbe un peso simbolico enorme per un gruppo come Tod’s. Nel frattempo, nei documenti giudiziari restano scolpite immagini che fanno a pugni con il linguaggio del lusso: luci al neon accese di notte, operai chini sul banco, dormitori ricavati tra gli scaffali, pasti freddi su tavoli di fortuna. L’altra faccia del glamour, quella che nessuna campagna pubblicitaria può coprire.
Eppure, proprio in questo paradosso si gioca il futuro del made in Italy: un sistema produttivo che si è sempre nutrito della sua artigianalità, ma che ora deve dimostrare di poterla coniugare con dignità, trasparenza e legalità. Perché un marchio non è solo una firma: è la somma delle mani che lo costruiscono, e di quanto valgono quelle mani.