Sezioni
Edizioni locali
13/09/2025 ore 06.30
Italia Mondo

Tokyo, boom dei Crying Café: locali dove è obbligatorio piangere e liberarsi, tra cocktail e stanze riservate alle lacrime

Non si sorride né si brinda: si piange. Spazi protetti, soprattutto per le donne, dove lacrime e drink si mescolano come terapia contro la pressione sociale. Un modello che conquista la capitale giapponese e accende curiosità anche in Occidente

di Luca Arnaù

In Giappone il bar non è più soltanto il luogo della pausa, della chiacchiera veloce o del caffè consumato di fretta al bancone. Da qualche anno, a Tokyo, il concetto di locale si è rovesciato: sono nati i Crying Café, spazi pensati per lasciarsi andare alle lacrime. Qui non si entra per divertirsi o rilassarsi, ma per concedersi il lusso di essere fragili.

L’idea non è un vezzo di marketing ma una risposta diretta al disagio sociale. In una società che premia il controllo delle emozioni e stigmatizza la debolezza, piangere in pubblico è un atto quasi impensabile. Così, in città frenetiche come Tokyo, sono comparsi i bar in cui il pianto è non solo ammesso, ma addirittura incoraggiato. Il cartello del Mori Ouchi Bar è eloquente: «Negative people only». Una sorta di manifesto di autenticità per chi ha bisogno di sfogarsi senza maschere.

Funziona così: si paga una consumazione obbligatoria, di solito un cocktail o un drink leggero, e poi si è liberi di piangere. C’è chi preferisce restare in silenzio, chi sfoglia un libro strappalacrime, chi guarda brevi filmati pensati per stimolare le emozioni. Qualcuno porta con sé cibo da casa, qualcuno si limita a un bicchiere d’acqua. L’importante è non trattenere nulla. Le lacrime, in questi luoghi, diventano una sorta di valuta emotiva: più scorrono, più ci si sente leggeri.

La pratica si collega al rui katsu, termine giapponese che indica l’“attività del pianto”. Non è raro che aziende organizzino vere e proprie sessioni collettive, convinte che liberarsi attraverso le lacrime migliori il rendimento lavorativo. I Crying Café hanno semplicemente portato questo concetto nella dimensione urbana e commerciale, trasformandolo in un’esperienza accessibile a chiunque.

Non mancano varianti raffinate. Nella capitale giapponese, ad esempio, l’hotel Mitsui Garden Yotsuya offre stanze del pianto riservate alle donne: per circa 60 euro a notte si trovano fazzoletti in quantità, selezioni di film drammatici e comfort tipici di un albergo di lusso. Un piccolo santuario per chi ha bisogno di staccare dalla pressione quotidiana e concedersi una notte di lacrime liberatorie.

Dietro il successo dei Crying Café c’è anche una dimensione culturale. In Giappone il concetto di tatemae, ovvero la facciata sociale che ognuno deve mostrare, spesso si scontra con l’honne, i veri sentimenti. Avere uno spazio dove abbandonare il tatemae e dare voce all’honne significa restituire autenticità a emozioni che, altrimenti, rimarrebbero soffocate.

Il fenomeno non è sfuggito a chi osserva il Giappone dall’estero. I Crying Café evocano immediatamente atmosfere letterarie e musicali. Ricordano la malinconia del romanzo “La ballata del caffè triste” di Carson McCullers, in cui il bar diventa rifugio di anime disilluse, e trovano un’eco nelle parole leggere ma profonde di Max Gazzè quando canta «mi bevo un caffè» per affrontare la vita com’è. Qui, quel caffè si accompagna a un pianto collettivo che diventa rito di purificazione.

Che cosa accadrebbe se un Crying Café aprisse in Italia? Forse l’idea farebbe sorridere, in un Paese dove il bar resta sinonimo di chiasso e socialità. Eppure, in un tempo in cui ansia e stress si moltiplicano, non è così improbabile immaginare un angolo in cui piangere senza sentirsi giudicati. Un luogo in cui le lacrime non siano più un segno di debolezza ma un gesto di resistenza emotiva.

In Giappone, intanto, il trend non sembra destinato a fermarsi. Ogni nuovo locale registra un’affluenza costante, con clienti che tornano regolarmente per il loro “rito delle lacrime”. La consolazione, a Tokyo, non passa più soltanto da un cappuccino o da un bicchiere di sakè. Ma da una tazza riempita di fragilità, da lacrime che diventano, per un istante, l’unica bevanda davvero necessaria.