«Un delitto barbaro e premeditato»: la procura chiede l’ergastolo per l’intera famiglia di Saman Abbas
Secondo l’accusa, la ragazza è stata uccisa su mandato collettivo, come punizione per la sua scelta di libertà. Premeditazione, motivi abietti, soppressione di cadavere: cinque ergastoli richiesti, un anno di isolamento diurno e una requisitoria durissima. «Era una condanna a morte familiare, un’esecuzione nascosta dietro il velo della tradizione»
di Luca Arnaù
Cinque ergastoli. È questa la richiesta, durissima, avanzata dalla procura generale di Bologna per l’omicidio di Saman Abbas, la diciottenne pachistana scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 nei campi di Novellara. Nessuna attenuante, nessuna scappatoia. Per il pg Silvia Marzocchi, padre, madre, zio e due cugini della ragazza sono colpevoli in concorso di omicidio volontario aggravato e soppressione di cadavere. Una “condanna a morte pronunciata in famiglia”, eseguita con freddezza e occultata sotto la retorica dell’onore.
«Un’azione barbara e inumana», ha detto Marzocchi in aula, nel corso della requisitoria davanti alla Corte d’Assise d’Appello. Una richiesta che ribalta in parte la sentenza di primo grado, che aveva già condannato all’ergastolo i genitori – Shabbar Abbas e Nazia Shaheen – e lo zio Danish Hasnain, ma aveva assolto i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, per insufficienza di prove. Ora anche per loro si chiede il massimo della pena. Il movente, secondo l’accusa, è limpido nella sua brutalità: Saman aveva rifiutato un matrimonio combinato, voleva vivere in Italia, scegliersi la vita e l’amore. Questo bastava, nella logica patriarcale e fondamentalista della sua famiglia, per considerarla una minaccia. Non una figlia da proteggere, ma un ostacolo da eliminare.
A rendere ancora più netta la posizione della procura è la ricostruzione delle ultime settimane di vita della ragazza. Dal 20 aprile in poi – ha spiegato Marzocchi – Saman visse in una trappola: circondata da sorrisi finti e affetto simulato, mentre tutto era già stato deciso. Doveva morire. La sua uccisione fu organizzata nei dettagli: chi doveva agire, chi doveva tacere, chi doveva scavare la fossa.
E se la Corte d’Appello ha oggi la possibilità di correggere il tiro è anche grazie alle parole, tardive ma significative, dello stesso zio Hasnain. Le sue dichiarazioni spontanee, raccolte nel processo in corso, hanno nuovamente chiamato in causa i due cugini: «Hanno scavato la buca e seppellito il corpo». Gli inquirenti lo avevano già sospettato. Le celle telefoniche, i movimenti, i tracciamenti digitali confermavano che sulla scena dell’occultamento c’erano almeno due persone. Il corpo di Saman, ritrovato solo nel novembre 2022, era stato nascosto sotto metri di terra, tra serre e campi coltivati, in una zona che la famiglia conosceva benissimo. Un nascondiglio che doveva garantire l’invisibilità. Un silenzio eterno.
A rendere ancora più drammatica la vicenda è la figura del fratello minore, unico testimone diretto. In primo grado il suo ruolo era stato letto con ambiguità, quasi a insinuare una responsabilità nella scintilla della lite. Ma per la procura generale la verità è un’altra: quel ragazzo è stato usato, manipolato, obbligato a fuggire. «È stato sacrificato – ha detto la pg – costretto al silenzio, sottoposto a pressioni insostenibili». La sua testimonianza viene ora considerata attendibile, lineare, priva di contraddizioni.
Ma il passaggio più amaro, e forse più necessario, arriva alla fine della requisitoria: «A Saman è stata tolta la dignità anche nel racconto. È stata dipinta come una ribelle, come se volesse provocare la sua famiglia. Non era così. Era una ragazza che desiderava vivere secondo i suoi legittimi desideri. E per questo è stata uccisa». Ora la parola passa alla Corte. Ma il messaggio della procura è chiaro: l’omicidio di Saman non è un delitto d’onore, non è una tradizione, non è una cultura da rispettare. È un crimine. E come tale va trattato. Tutti i responsabili devono pagare. Nessuna eccezione. Nessuna attenuante. Nessun perdono.