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15/07/2025 ore 17.36
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Undici coltellate non valgono l’ergastolo: scende a 10 anni la condanna per l’omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega

Ridotta in appello la pena per Gabriele Natale Hjorth, complice nell’uccisione del carabiniere nel luglio del 2019. La famiglia: «Partiti dal fine pena mai, oggi si chiude con uno sconto da supermercato»

di Luca Arnaù

Undici coltellate, nel cuore della notte, nel cuore di Roma. A riceverle, un uomo in divisa. Un servitore dello Stato. Un vicebrigadiere che quella sera non aveva fatto altro che il proprio dovere: cercare di fermare due ventenni americani, in fuga dopo un tentato scippo. Mario Cerciello Rega è morto così, riverso sull’asfalto di via Pietro Cossa, mentre la moglie, sposata da neanche due mesi, lo aspettava a casa.

Cinque anni dopo, l’Italia che avrebbe dovuto onorarlo si presenta con un verdetto che sa di resa: 10 anni, 11 mesi e 25 giorni. Questa è la pena decisa dalla Corte d’Appello di Roma per Gabriele Natale Hjorth, amico e complice del killer Finnegan Lee Elder. Una riduzione di cinque mesi rispetto alla precedente condanna, motivata da un “errore di calcolo” nella sentenza dell’Appello bis.

E qui non si tratta di formalismi, ma di dignità. Quella di una famiglia distrutta, quella di un’intera Arma ferita, quella di un Paese che assiste impotente allo smantellamento, pezzo dopo pezzo, di qualunque valore fondante. Il professor Franco Coppi, legale della famiglia Cerciello, ha detto la verità nuda e cruda: «Siamo partiti dall’ergastolo e oggi si chiude con una pena da sconto al supermercato. È una soddisfazione morale minima».

E come dargli torto?
Hjorth non ha mai sferrato le coltellate, ma era lì, e ha fatto abbastanza. Era nella stanza dell’albergo, ha nascosto l’arma, ha incitato Elder e, secondo i giudici, ha contribuito in pieno all’escalation di quella sera. Nessun segno di pentimento, nessuna mano tesa alla giustizia, nemmeno la decenza di un’assunzione piena di responsabilità. Solo strategie difensive, appelli, tecnicismi. E oggi se la cava con dieci anni. Meno della pena che si dà per alcuni reati fiscali.

A leggere le carte del processo, emerge un dettaglio che brucia ancora di più: Hjorth oggi è ai domiciliari, in una località protetta. Un uomo libero a metà, mentre il vicebrigadiere Cerciello Rega è sotto terra. Nessun tribunale riporterà in vita Mario, ma una sentenza giusta avrebbe almeno salvato l’onore della giustizia italiana. Invece no. Si è preferito ricalcolare, rivedere, ridurre. E a forza di ridurre, siamo arrivati al punto che uccidere un carabiniere vale poco più di dieci anni di prigione.

Non è solo una sentenza, è un segnale. Un pessimo segnale. Per chi indossa ogni giorno una divisa, per chi esce di casa sapendo che potrebbe non tornare. Per chi crede ancora nello Stato come rifugio e come forza. Oggi lo Stato si mostra come un’entità distratta, incapace di far rispettare fino in fondo ciò che conta. E ciò che conta, qui, è la vita di un uomo morto mentre proteggeva la collettività.

Nel silenzio delle istituzioni, restano le parole, fredde e severe, dei giudici. E resta lo sgomento di chi osserva la giustizia barcollare sotto il peso della burocrazia. E resta, soprattutto, il dolore di chi Mario lo conosceva, lo amava, lo aspettava ogni sera. E che oggi sa che, in fondo, non è valsa la pena. Perché anche quando la verità è stata accertata, anche quando l’Italia ha pianto il suo carabiniere, qualcuno ha deciso che non era abbastanza.