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19/08/2025 ore 12.07
Opinioni

«A’ Sila vò capita»: il canto malinconico di una montagna sospesa tra il mito degli anni 90 e il vuoto di oggi

Dagli anni d’oro tra Camigliatello e Lorica al silenzio dei borghi spettrali: la Sila racconta un mondo (molto cosentino) che non c’è più. Una memoria che diventa ferita, malinconia e atto di autocoscienza

di Francesco Viafora

C’è un detto, una frase leggendaria, un ritornello che recita come un mantra “ A’ Sila vò capita”. Questa frase, nella sua apparente semplicità, è una delle frasi più dense mai coniate, ma non lo è in assoluto, lo diventa solo se dette in un determinato contesto ed ad una ben precisa fascia generazionale.

Parlare di Sila a Cosenza è come una chiamata alle armi della nostalgia. Significa evocare storie e vite sospese: nelle estati piene di ragazzi, nei weekend tra Camigliatello e Lorica, nelle tavolate infinite nei ristoranti di montagna si consumava una ritualità collettiva che riproduceva esattamente una versione in montagna di Cosenza e delle sue dinamiche sociali.

Una cosa del genere penso non abbia mai avuto altri esempi nella storia, quel modo di vivere la montagna non era soltanto vacanza: era il trasferimento in quota di ogni interazione e relazione cosentina esattamente come si svolgeva in città. In Sila, nel suo periodo d’oro che può essere racchiuso nell’iconico decennio 1992-2002, i rapporti di forza erano immutati, i borghesi erano borghesi ed il popolo rimaneva popolo, si riproduceva lo stesso teatro, la stessa rappresentazione della vita cosentina, dove erano identiche le amicizie, erano identiche le famiglie che si ritrovavano, ed i gruppi di amici che occupavano i bar come se fossero le piazze del centro città.

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Era un trasferimento di comitive, usanze condivise e di linguaggi formali, anche chi si stava sul cazzo rimaneva fermo sulla proprie posizioni, perché chi ti sta antipatico a 300 metri, molto probabilmente ti starà antipatico anche intorno ai 1000 metri. Le case in affitto o le seconde case non erano semplicemente luoghi di villeggiatura, ma erano avamposti di resistenza ontologica, erano dei veri e propri salotti paralleli della città, dove si decidevano inviti, esclusioni e si consolidavano amicizie.

Anche in montagna, come su Corso Mazzini, c’era chi dettava i tempi e i modi della socialità. La Sila diventava così un prolungamento simbolico di Cosenza: stessa gerarchia di status, stessi rituali di appartenenza, ma immersi in un paesaggio splendido, un paesaggio che forse nessuno osservava bene. Poi come di incanto, come se un mago venuto da un’altra dimensione avesse spento un interruttore, questo mondo è finito. Ma non è stata una lenta ed inesorabile ritirata, si è trattato di una vera a propria sparizione improvvisa. E’ stata così dirompente questa sparizione che penso sia capitato quasi a tutti di andare in una casa in Sila da un amico e trovare un calendario del 1997 o del 2001 ancora oggi.

Le maglie del Cosenza Calcio degli anni 90 sono ancora appese su qualche caminetto, e non c’è nessuno schermo di ultima generazione che sostituirà negli appartamenti di montagna mai le vecchie televisioni a colori degli anni 90. Dunque, quando a Cosenza si dice che la Sila “va capita”, non si allude a un semplice esercizio di comprensione geografica o storica: si evoca piuttosto un vissuto limitato nello spazio tempo, un vissuto che fa parte di un rituale collettivo di introspezione. Capire la Sila nei termini Cosentini sarebbe impossibile per un veneto, perché capirle richiama ad una sorta di analisi comunitaria in cui ciascuno, finisce per guardare dentro il proprio passato. La Sila diventa allora uno specchio del sé, uno specchio severo, silenzioso, impenetrabile, che costringe a fare i conti con ciò che si è stati e con ciò che non si è più.

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Ecco perché la passeggiata in Sila, la domenica in montagna, per ogni cosentino è un atto di esistenza: un piccolo rito di autocoscienza. Nel ritorno affiora la malinconia, intesa come strumento di misura; essa serve a contare le perdite, a rammendare i legami.

Qui rientra, come un’ombra necessaria, la voce di Vito Teti: la restanza non è immobilità, è stare in un luogo per continuare a cercarlo, portarlo dentro anche quando si svuota. Camminare tra i larici, sfiorare i muri chiusi, leggere le insegne arrugginite sono dunque i gesti minimi di una liturgia laica con cui la Sila ci restituisce, per un istante, la forma di noi stessi. Tornare a Camigliatello, così come a Lorica, oggi è un gesto che porta con sé la drammaticità del vuoto, contiene la sensazione che il tempo del pienone, delle folle di ragazzi, dei salotti montani, delle piste affollate, sia ormai irripetibile.

E’ irripetibile perché parla al cuore di coloro che sanno scrutare oltre i Bar murati ed i Residence spettrali ed abbandonati di Croce di Magara, dove la strada, così come nel Colore venuto dallo spazio di Lovecraft, deviando ha sospeso un borgo intero relegandolo ad un tempo bloccato che non è mai di fatto esistito. Nelle strutture sciistiche abbandonate, nei resti della Pagliara, nelle case che cadono quasi a pezzi, nelle finestre chiuse da decenni, si nascondono i fantasmi di un mondo che non potrà mai essere compreso, se non da chi lo ha vissuto.

Nessun turismo di massa potrà mai solcare l’altopiano Silano che è di fatto reso inaccessibile dal suo stesso ricordo. Nei boschi c’è spesso un atmosfera spettrale e struggente dove il silenzio si confonde con il pianto della scavatrice evocato da Pasolini: quel lamento metallico, quella disperazione di ferro che nel poeta era già grido di morte di una città spogliata della propria identità, nella Sila deserta diventa l’eco della rovina e dell’abbandono. È un pianto che sembra provenire non dalle macchine, ma dalla montagna stessa, come se il paesaggio urlasse il dolore di essere stato tradito, dimenticato, ridotto a relitto.

La Sila non si lascia ingannare neanche dal ricordo: non consola, non accarezza, non ammette restauri facili, è come il padiglione d’oro che brucia nell’opera di Mishima. La Sila espone piuttosto le cicatrici di un tempo spezzato, mostrando come le baite murate, gli alberghi crollati, i bar decrepiti e i ruderi degli impianti sciistici siano diventati i muti testimoni del passato di almeno tre generazioni. Non c’è molto da capire, perché è un passato che non ha più voce se non nel vento che passa tra i pini, nei tetti divelti delle case, nei cartelli arrugginiti che indicano piste ormai inghiottite dall’erba. Ogni rovina diventa un altare muto, un richiamo a ciò che è stato e non sarà più. La Sila non racconta la speranza di un ritorno, ma lo sgomento per una comunità che l’ha abbandonata di colpo, lasciandole in eredità soltanto gli echi del suo stesso splendore.