La Calabria degli onesti: dietro all’apparente pienezza un vuoto di responsabilità civile
Una pacificata indifferenza sembra essere il massimo che riusciamo a maturare. Si resiste ma non si costruisce, si denuncia ma non si trasforma davvero
La Calabria degli onesti è immensa e ricca di risorse. È una terra che non smette di sorprendere per lo splendore dei paesaggi, la profondità delle tradizioni, la tenacia della gente. Eppure, dietro questa apparente pienezza, resta un vuoto: un vuoto di valori condivisi, di senso collettivo, di responsabilità civile. Se si esclude la stagione, troppo effimera, dello sdegno antimafioso – quella che continua a restare appannaggio di quelli che Leonardo Sciascia ha definito “i professionisti dell’antimafia” – la Calabria non ha ancora elaborato un pensiero autentico di sé, non ha trasformato la sofferenza e le ferite in cultura, in consapevolezza.
Ha forse prodotto una cultura diffusa? Ha ideato progetti di rinnovata convivenza civile? Si è riusciti ad andare oltre le suggestive fiaccolate, i cortei dell’indignazione collettiva, i compiti di educazione civica scaricati dal web da scolari svogliati? O, piuttosto, si è ridotto tutto a un rito ripetuto, a un gesto che consola senza cambiare nulla? Ci si interroga mai sul perché, in certe scuole e piazze, un libro o uno spettacolo sulla Shoah o sulla mafia vengano accolti come un dovere istituzionale, come un diversivo intercambiabile con una serata di intrattenimento televisivo?
Cosa si oppone, in Calabria, alla pretesa di addomesticare e appiattire la storia, di farne un racconto innocuo, levigato, senza attriti? Certamente non lo stuolo di opinionisti, polemisti, autori engagée che, per abitudine o convenienza, individuano altrove i colpevoli dei nostri mali: alla Regione, a Roma, o nel nord colonialista. Noi, si sa, siamo sempre vittime, mai complici. Meglio non seminare dubbi, meglio non sporcarsi le mani con la fatica dell’autocritica. Se proprio si devono avanzare sospetti, è più comodo rivolgerli lontano.
Meglio non farsi domande, meglio questa calma piatta, questo equilibrio immobile che chiamiamo sopravvivenza. Meglio uno Stato che porta la rivelazione della propria natura nel suo stesso nome – Stato, il participio passato di stare, ricordava Alberto Savinio – e che noi interpretiamo come giustificazione alla nostra inazione. Noi, sconfinatamente liberi e felicemente incoerenti, stiamo a crogiolarci in un contesto fatto delle stesse strutture e circuiti del potere che fingiamo di condannare, di inestricabili corresponsabilità che preferiamo ignorare.
E così, nella Calabria degli onesti, una pacificata indifferenza sembra essere il massimo che riusciamo a maturare. Si resiste, ma non si costruisce; si denuncia, ma non si trasforma davvero. La Calabria degli onesti partorisce poco o nulla, eppure, paradossalmente, questo poco sembra bastarci. Forse è proprio questa la nostra più sottile rassegnazione: chiamarla onestà per non ammettere che è solo abitudine.