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16/11/2025 ore 16.45
Opinioni

Calabria, paese per vecchi (che non mollano l’osso). E i giovani? Evaporati

È la regione più anziana d’Italia dopo la Liguria: per ogni bambino tra 0 e 14 anni ci sono più di due over 65. E non è un dato statistico: è un referto clinico, una diagnosi sociale

di Francesco Vilotta

In Calabria non c’è una semplice frattura generazionale: c’è un buco nero. Non mancano i giovani, mancano gli adulti. Quella fascia centrale, decisiva, che altrove costruisce, lavora, amministra, inventa, genera impresa e futuro, qui semplicemente si è dissolta. È come guardare una fotografia in cui manca lo strato intermedio: vedi i bambini e i vecchi, e nel mezzo un vuoto così grande da sembrare normalità. È la regione più anziana d’Italia dopo la Liguria: per ogni bambino tra 0 e 14 anni ci sono più di due over 65. E non è un dato statistico: è un referto clinico, una diagnosi sociale. Qui il futuro non cresce: scappa. Qui la vita non si progetta: si attende. Qui la giovinezza è una parentesi, l’età adulta un’occasione mancata e la vecchiaia un destino collettivo.

Non è vero che i giovani non ci sono: ci sono finché possono respirare poi, semplicemente, partono. Non per ambizione, ma per istinto di sopravvivenza. In Calabria la partenza non è un’opportunità: è un esodo silenzioso. Le valigie non si fanno soltanto per scelta, ma soprattutto per mancanza di alternative. Chi resta vive nella zona grigia: non è mai troppo piccolo per essere trattato da adulto, e mai abbastanza grande per essere considerato davvero tale. Qui la crescita non coincide con la responsabilità: coincide con l’attesa. In Calabria l’adolescenza non finisce mai, non perché la vita sia leggera, ma perché l’età adulta non viene mai riconosciuta, assegnata, legittimata.

Ma il punto più fragile non è la fuga dei ventenni: è l’evaporazione dei quarantenni. In Calabria la generazione 40–50 anni non è una classe dirigente: è un fantasma. Altrove questa fascia guida ministeri, ospedali, imprese, giornali; qui galleggia. Troppo grande per essere giovane, troppo piccola per essere considerata adulta. Chi ricopre ruoli di responsabilità, spesso, non rappresenta un cambio di paradigma ma la sua parodia. Sono quelli che ce l’hanno fatta imparando la lezione più amara: per entrare nei posti che contano bisogna diventare più vecchi dei vecchi che te li concedono. Bisogna imitare, non rompere. Bisogna adeguarsi, non generare. In una terra normale la maturità è conquista. Qui è mimetismo.

E in mezzo a tutto questo c’è il nodo irrisolto: una generazione che non diventa mai adulta e una che non diventa mai anziana. Gli uni restano eterni figli, in attesa di un varco che non arriva mai. Gli altri restano eterni padri, incapaci di cedere lo scettro perché pensano e credono che dietro di loro c’è il vuoto. Così la storia si ripete senza successione: non c’è conflitto generazionale, ma occupazione dei ruoli. E quando il potere non passa di mano, il futuro non passa di qui.

Il risultato è una fotografia paradossale e struggente: la Calabria è un Paese per vecchi, ma non nel senso tenero del termine: un luogo lento, dolce, dove la vita rallenta e finalmente si riposa. No. La Calabria è un Paese per vecchi che non vogliono e non possono riposare, perché hanno sulle spalle il peso di tre generazioni. Altrove i sessanta e settantenni tornano padri di se stessi, si godono il paesaggio, riprendono fiato. Qui no. Qui continuano a reggere il mondo. Pagano bollette, comprano alimenti, mantengono figli quarantenni, crescono nipoti, tengono aperte case che altrimenti sarebbero vuote. Sono i veri ammortizzatori sociali della regione: non esiste bonus o riforma capace di pareggiare ciò che fa una pensione minima distribuita con amore. La loro resistenza è millimetrica, quotidiana, e ha la forma di una fila alle poste, di una busta di farmaci, di due chili di frutta comprata per i nipoti. Ma ogni gesto, col tempo, diventa fatica. E la fatica diventa struttura. Qui si invecchia senza scendere mai dal campo di battaglia. E la battaglia non ha nemici visibili: ha il tempo, la solitudine, la stanchezza, la cieca ostinazione.

Persino quando la Calabria produce eccellenza, resta isolata. L’Università della Calabria è un patrimonio enorme, un campus che potrebbe cambiare il destino di un territorio intero. E invece resta un regno separato. Un sistema chiuso, autoreferenziale: un castello illuminato nel mezzo di un territorio spento. Più dell’80% degli studenti vive, studia e socializza solo dentro il campus o nelle sue zone limitrofe, e più di uno su tre nei primi anni non è mai stato nemmeno a Cosenza. Non è solo una questione di trasporti. È una questione di curiosità. Di sguardo. Di desiderio. Di confine mentale. L’università genera teste, ma non cittadini. Lauree, ma non radici. Giovani che studiano per diventare classe dirigente altrove, non qui. Soldatini di un esercito che non esce mai dalla caserma. Anche dove c’è talento, resta un recinto. Quello che dovrebbe essere un ponte, resta un fortino.

Allora la domanda smette di essere “perché i giovani se ne vanno?” e diventa: cosa succederà quando quelli che reggono il mondo, i sessantenni e settantenni che ancora tengono insieme il sistema familiare e sociale, non ci saranno più? Chi vivrà qui quando cadrà l’ultima colonna? Chi si assumerà la responsabilità del presente? Chi dirà “questa decisione è mia”? Chi avrà ancora il coraggio di restare senza restare fermo? È una domanda che pesa su ogni strada vuota, su ogni serranda abbassata, su ogni famiglia in cui la memoria è più numerosa della possibilità.

La Calabria non sta solo invecchiando: sta invertendo la logica della vita. Il presente è sulle spalle dei settantenni. Il futuro è in fuga. La maturità è sospesa. L’infanzia osserva, silenziosa. Si resiste, ma non si costruisce. E la resistenza, da sola, non genera domani: prolunga l’agonia dell’ oggi. Qui la speranza è un amore fedele e stanco, una forma di devozione, quasi religiosa, che però non riesce a diventare politica. Qui ci si attacca alla terra come ci si attacca alle fotografie di famiglia: con tenerezza, con nostalgia,con orgoglio, con disperazione.

Non è un destino. Non è scritto nel sangue. È scritto nella cultura, nei modelli, nella gerarchia delle età. Cambiare significa compiere un atto radicale: restituire l’età giusta ai ruoli giusti. Che i giovani siano giovani ma non eternamente minori. Che gli adulti diventino adulti e prendano la loro posizione. Che gli anziani possano finalmente riposare. Perché un Paese per vecchi può essere dolce, poetico, perfino saggio. Ma un Paese che diventa solo per vecchi muore mentre continua a parlare.

La Calabria non ha bisogno di essere difesa. Ha bisogno di essere liberata. Liberata dagli alibi, dalle autoassoluzioni, dal lamento, dalla retorica della rassegnazione. Liberata dal culto della resistenza quando diventa paralisi e mai rivoluzione. Liberata dal mito del “sempre uguale” che ha sostituito il diritto al cambiamento. Ha bisogno di un atto di rottura, semplice e immenso: cominciare a vivere. Non sopravvivere. Vivere davvero. Perché è questo il punto, alla fine: non basta continuare a resistere. Adesso bisogna iniziare a vivere.