Caso Signorini e accuse mediatiche: quando l’indignazione pubblica rischia di sostituirsi al diritto
Casting couch e tv in una vicenda che divide tra biasimo morale e assenza (per ora) di reati. In assenza di indagini e prove di costrizione, la gogna mediatica solleva interrogativi sul ruolo della giustizia emotiva
Nella contemporaneità mediatica italiana, domina da giorni un caso di forte risonanza simbolica e polemica: il cosiddetto “sistema Signorini”.
Il conduttore del Grande Fratello VIP, Alfonso Signorini, è stato oggetto di accuse mediatiche molto forti — principalmente sollevate dall’ex paparazzo Fabrizio Corona nel suo format "Falsissimo" — secondo cui l’accesso al reality e alle dinamiche del mondo televisivo sarebbe stato condizionato da rapporti personali e presunti scambi di natura sessuale con aspiranti concorrenti. Corona ci parla di circa 500 casi, tuttavia, le uniche chat, ad oggi a disposizione, sono quelle tra Signorini e Medugno. Secondo tale versione, sarebbe stato cioè implicito che, in certe relazioni, il “prezzo del successo” fosse almeno in parte di natura intima o personale.
Al momento, è fondamentale ricordare che non esiste alcun procedimento giudiziario penale in corso nei confronti di Signorini su questo specifico tema. Le dichiarazioni del conduttore riportano che la questione sia stata affidata alle vie legali, ma non risultano indagini o rinvii a giudizio per reati quali violenza, estorsione o abuso di potere legati a quanto descritto nei media. Questo è necessario da sottolineare, ad oggi.
Nel nostro ordinamento penale vige un principio cardinalmente fondamentale: la punibilità di una condotta richiede la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Tra queste componenti, l’elemento psicologico e la mancanza di consenso, o la costrizione diretta, sono criteri insostituibili per qualificare un atto come reato. Un rapporto adulto e consenziente, per definizione, non soddisfa la nozione di violenza o costrizione, a meno che non vi siano elementi oggettivi di privazione della libertà o di induzione illegittima.
Se le accuse rivolte a Signorini si limitano a presunte avance o a presunti rapporti personali, tali condotte non configurano, in sé e per sé, un illecito penale. Possono tutt’al più costituire condotte moralmente discutibili, in quanto rappresentano dinamiche di potere, potenziale sfruttamento di aspettative e gerarchie professionali, o ambiti di opportunismo soggettivo. Queste dinamiche, pur essendo sul piano etico e deontologico profondamente problematiche, non necessariamente raggiungono il livello di costrizione richiesto dalla legge penale.
È quindi legittimo — e perfino doveroso — procedere a una distinzione netta: il biasimo morale di una condotta e la sua rilevanza penale non coincidono. Una pratica di "casting couch" può essere eticamente riprovevole, poiché introduce una mercificazione del corpo e dell’intimità all’interno di contesti professionali, ma può non assumere rilievo penalistico se non si dimostra la presenza di minaccia, costrizione o abuso giuridicamente configurabile.
Il diritto penale moderno, per sua natura, non è un codice di perfezione morale, bensì uno strumento estremo di tutela contro la violenza e l’abuso. Punire ciò che è semplicemente immorale, senza elementi di coazione, significherebbe scivolare in una forma di giustizia etica che la modernità giuridica ha consapevolmente rifiutato.
Esempi analoghi nello spettacolo internazionale
Il dibattito sollevato dal caso Signorini non è affatto isolato. Nel mondo dello spettacolo internazionale, numerose figure pubbliche sono state accusate, nel corso dei decenni, di aver favorito carriere in cambio di relazioni personali o sessuali. In molti casi, l’indignazione collettiva ha preceduto — e talvolta sostituito — il vaglio giudiziario, producendo una condanna simbolica prima ancora di una verifica fattuale.
Il movimento #MeToo ha avuto il merito storico di portare alla luce dinamiche strutturali di abuso, silenzio e paura. Tuttavia, non tutte le vicende emerse hanno condotto a una responsabilità penale, molte sono rimaste nell’ambito del biasimo morale, proprio perché mancava la dimostrazione di una costrizione concreta. Questo dato, lungi dal sminuire la gravità etica dei fatti, conferma la distanza necessaria tra giustizia morale e giustizia penale.
Cos’è il “casting couch”
Il termine casting couch — letteralmente “divano del provino” — nasce nel contesto dell’industria cinematografica statunitense tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento e designa una prassi informale, spesso taciuta ma largamente conosciuta, secondo cui l’accesso a ruoli, scritture o avanzamenti di carriera, poteva essere subordinato alla disponibilità sessuale dell’aspirante interprete nei confronti di produttori, registi o figure apicali del sistema.
Storicamente, il casting couch non si è configurato come un sistema monolitico di violenza esplicita, bensì come una zona grigia, ambigua, in cui desiderio, ambizione, potere e opportunismo si intrecciavano in modo opaco. In molti casi, l’asimmetria di potere era reale e gravosa; in altri, la relazione avveniva all’interno di un consenso formalmente espresso, sebbene viziato da condizioni materiali e simboliche profondamente ineguali.
Ciò che rende il casting couch moralmente esecrabile, non è sempre — o non soltanto — la presenza di una violenza manifesta, bensì la riduzione dell’arte e del lavoro creativo a merce di scambio corporeo, l’introduzione di un criterio extrartistico nella selezione del talento, e la trasformazione del desiderio in strumento di dominio.
Nel corso della storia dello spettacolo, numerose figure hanno ammesso — talvolta con disincanto, talvolta con amarezza — di aver accettato tali compromessi come parte di una logica sistemica: una logica che premiava la disponibilità, l’adattamento, la rinuncia alla dignità personale in nome di una promessa di visibilità. Anche in questi casi, tuttavia, l’accettazione volontaria del compromesso ha reso spesso impossibile una qualificazione penalistica del fatto, pur lasciando intatto il giudizio morale negativo.
Il casting couch, dunque, rappresenta una delle più inquietanti manifestazioni del rapporto tra potere e desiderio nella modernità mediatica: non sempre un crimine, quasi sempre una colpa morale; raramente un atto isolato, più spesso un sintomo strutturale di un sistema che ha confuso successo e disponibilità, talento e sottomissione.
Il caso Signorini non è il principio generatore del meccanismo
Alla luce dell’analisi complessiva, risulta non soltanto improprio, ma intellettualmente disonesto, erigere Alfonso Signorini a emblema di una degenerazione morale assoluta o, peggio ancora, a capro espiatorio di un sistema (certamente moralmente sbagliato) che lo precede e lo oltrepassa. La tentazione di personalizzare il male, di concentrarlo in un singolo volto e in un singolo nome, risponde più a un bisogno emotivo di semplificazione che a un esercizio autentico di razionalità critica.
Signorini, per quanto figura apicale e dunque inevitabilmente esposta a giudizi severi, non è il principio generatore del meccanismo che gli viene imputato, né può essere ritenuto responsabile, sul piano giuridico, di dinamiche che — laddove siano effettivamente esistite — si collocano nell’ambito del consenso adulto e della libera scelta individuale. Confondere l’esistenza di rapporti personali, anche discutibili, con l’idea di una colpa penale equivale a dissolvere il diritto nella morale e a sostituire la prova con il sospetto, la legge con l’indignazione collettiva.
Esprimere un giudizio di questo tipo, in tale contesto, non significa legittimare pratiche opache o indulgere in un’apologia del potere, bensì difendere un principio più alto e più fragile: quello della distinzione tra responsabilità morale e responsabilità giuridica, tra ciò che può essere criticato e ciò che può essere punito. È una difesa che non riguarda soltanto un uomo, ma l’idea stessa di giustizia come spazio razionale, sobrio, non vendicativo.
In ultima istanza, riconoscere che Alfonso Signorini non è “il male” significa riaffermare che il male, quando esiste, non si individua per acclamazione, non si costruisce sull’onda dell’emotività collettiva. Ed è solo a questa condizione che una società può dirsi, al tempo stesso, moralmente vigile e giuridicamente civile.