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27/04/2025 ore 12.00
Opinioni

I figli della precarietà: vivere a vent’anni senza certezze

Non abbiamo mai chiesto certezze assolute. Ma forse speravamo almeno in una strada percorribile, in un orizzonte da poter raggiungere. Oggi molti di noi vivono sospesi tra sogni ridimensionati e ansie quotidiane, figli di un tempo che non promette nulla e chiede tutto

di Luca Falbo

Abbiamo riempito aule, sostenuto esami, inseguito lauree. Abbiamo creduto che bastasse studiare, essere bravi, accumulare competenze. Invece ci siamo ritrovati in una giungla di tirocini gratuiti, master a pagamento, concorsi che cambiano regole ogni anno. Studiamo perché ci hanno detto che è l’unica via, ma non sappiamo più a cosa porta.

Le borse di studio spesso non coprono nemmeno l’affitto. Gli affitti, poi, sono rincari su rincari, soprattutto nelle città universitarie, e ve lo posso assicurare, dormire nelle tende in università deve essere un simbolo, ma servono politiche forti e concrete nella direzione di una vita sostenibile e di una casa per tutti.

In molti lavorano mentre studiano, sacrificando notti, weekend, salute mentale. Studiare oggi è un atto di resistenza. Significa sopravvivere a ritmi insostenibili, sacrificare la propria salute emotiva e mentale per un futuro che appare ogni giorno più incerto.

Dietro ogni laurea, ogni esame superato, c’è un pezzo di fatica invisibile: turni serali, sveglie all’alba, viaggi infiniti sui mezzi pubblici, rinunce che si sommano senza mai garantire un vero premio.

Lavorare senza mai sentirsi al sicuro

Purtroppo, non finisce (quando finisce) con la corona d’alloro sulla testa. Chi ha finito di studiare, si scontra con contratti a termine, stage non retribuiti, collaborazioni occasionali. "Fino al 30 giugno, poi si vedrà", ti dicono. "Questo mese va bene, ma il prossimo?". E intanto si continua a vivere sospesi.

Non si chiede il contratto a tempo indeterminato come un privilegio: si chiede solo la possibilità di progettare una vita, di sapere se si potrà pagare l’affitto anche tra sei mesi. Non c’è spazio per il futuro, quando tutto quello che hai è provvisorio.

Molti si trovano costretti a cambiare città, lavoro, relazioni. A mettere tra parentesi sogni, relazioni affettive, persino la salute. Perché la precarietà non consuma solo il conto in banca: consuma la fiducia, la progettualità, l’identità stessa.

Ansia come condizione permanente

Non è solo stanchezza. È ansia che ti entra nella pelle. È il messaggio che arriva il venerdì sera: "Da lunedì non servi più". È il bando che slitta di mesi. È la bolletta che sale quando il contratto scade.

Viviamo iper-connessi eppure isolati. Passiamo da una notizia all’altra, da una speranza all’altra, senza mai mettere radici. Ogni decisione – una casa, un master, un viaggio – viene presa con il timore di doverla rimpiangere. Essere giovani oggi è vivere in bilico, anche quando sembra che stiamo ridendo, forse perché ridiamo per non piangere.

Ci sono sogni che diventano piccoli per necessità. Ambizioni che si ridimensionano, non per mancanza di talento, ma per assenza di possibilità. Viviamo in equilibrio precario tra la voglia di crederci ancora e il bisogno di non farsi troppo male.

Sogni infranti ma non spenti

Ci hanno chiamati "bamboccioni", "choosy", "generazione Z", "nativi digitali". Ma nessuno si è davvero fermato ad ascoltare cosa significa avere vent’anni in un mondo che traballa.

I sogni, per fortuna, non si cancellano. Si adattano. Si piegano, ma resistono. Sogniamo ancora di lavorare con dignità, di poter scegliere, di costruire senza aver paura di perdere tutto.

Sogniamo città dove potersi permettere una casa. Lavori che diano un senso alle giornate. Scelte che non siano continuamente rinvii. E sogniamo anche di restare o di tornare: di poter costruire un futuro senza doverlo cercare altrove.

Non chiediamo regali. Chiediamo diritti. Opportunità. Chiediamo di non essere lasciati soli nella precarietà, di non essere raccontati solo come "quelli che non si impegnano abbastanza".

Perché chi vive a vent’anni senza certezze impara ad avere un coraggio che non si vede. E a quel coraggio, la società deve qualcosa. Deve futuro, deve fiducia, deve dignità.

Non si tratta solo di offrire contratti migliori o stipendi più alti. Si tratta di riconoscere che una società che abbandona i suoi giovani è una società che abdica al proprio futuro.

Abbiamo già dimostrato di resistere. Ora chiediamo di costruire. Di esistere senza dover sempre sopravvivere.