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15/05/2025 ore 19.11
Opinioni

Il bambino ucciso e la bandiera rimossa. Da Gaza a Putignano, l'impunità ha bisogno del silenzio

Mohammed Bardawil e Sofia Mirizzi, i due volti di una stessa ossessione: far sparire ciò che ricorda l’ingiustizia. Vogliono cancellare la verità, ma noi abbiamo il dovere di ricordare

di Francesco Vilotta

Non si chiama più verità. Si chiama corpo. Corpo di un bambino. Corpo che testimonia. Corpo che sanguina. Corpo che tace, perché è stato fatto tacere.

Si chiamava Mohammed Bardawil. Aveva dodici anni. Ed era l’unico superstite del massacro di marzo, quando quindici paramedici e operatori delle Nazioni Unite vennero giustiziati a sangue freddo a Rafah. Non erano combattenti. Non avevano armi. Avevano barelle, bende, mani nude. E sogni d’aiuto.

Mohammed era lì. Con gli occhi ben aperti di chi non ha ancora imparato a fingere. Aveva visto. Aveva parlato. Aveva detto: «Li hanno colpiti da un metro di distanza».

Ma l’indecenza del mondo non sopporta gli occhi innocenti. La sua testimonianza è stata censurata, edulcorata, corretta, come si corregge un compito troppo sincero per poter essere accettato. Anche il New York Times ha raccolto la sua voce, ma le affermazioni più gravi non sono mai apparse nella versione finale dell’inchiesta.

Forse troppo vere. Troppo nette. Troppo irricevibili per il decoro occidentale.

E così Mohammed è stato ucciso. Non in uno scontro. È stato eliminato. Con metodo. A Mawasi. Da chi teme più i testimoni che i nemici.

L’omicidio di Mohammed è un crimine doppio. È un crimine contro la vita e un crimine contro la memoria.

Uccidere un testimone non serve a cancellare ciò che è accaduto: serve a impedire che venga raccontato. Serve a costruire l’impunità come sistema. Serve a trasformare la giustizia in silenzio e il silenzio in normalità.

E se pensate che tutto questo sia lontano, che riguardi solo Gaza, che sia questione di conflitti e confini, allora guardate cosa è accaduto a Putignano, in Puglia.

Una casa. Un balcone. Una bandiera. Quella della Palestina.

Esposta pacificamente, legalmente, da una giovane donna italiana, Sofia Mirizzi, sul proprio spazio privato.

E poi la polizia che sale le scale. Che bussa. Che “chiede”, con tono fermo, di rimuoverla. Perché lì deve passare il Giro d’Italia. Perché ci sono le telecamere. Perché la bandiera non si deve vedere.

Non stavano disturbando nessuno. Non stavano violando alcuna legge. Stavano semplicemente dicendo: «Non dimenticate».

Ed è proprio questo il problema.

Dalla sabbia rovente di Gaza al decoro televisivo di un evento sportivo, la logica è la stessa: la verità disturba. Va nascosta.

Va rimossa dalle inquadrature, dai balconi, dai racconti.

Che si tratti di un bambino testimone o di una bandiera appesa, l’ossessione è la stessa: far sparire ciò che ricorda l’ingiustizia.

E allora la censura non è più solo quella dei regimi. È la censura democratica del decoro. La censura delle emozioni scomode. La censura della solidarietà. La censura della pietà.

Ma noi abbiamo il dovere di ricordare. Di dire il nome di Mohammed. Di dire il nome di Sofia. Di dire che il diritto di raccontare, di testimoniare, di mostrare una bandiera, è la prima forma di resistenza.

Perché un bambino non muore mai da solo. Un bambino che muore in silenzio ci rende tutti muti. Un bambino che viene giustiziato perché ha parlato ci fa colpevoli se restiamo zitti.

Non è più tollerabile vedere il mondo che uccide i testimoni. Non è più tollerabile vedere un esercito che ha paura della voce di un dodicenne. Non è più tollerabile vedere uno Stato che ha paura di una bandiera su un balcone. Perché quando una bandiera diventa più pericolosa di un’arma, quando un colore fa più paura di un proiettile, quando un simbolo viene trattato come un crimine, allora non siamo più in una democrazia: siamo nel regime dell’oblio.

Mohammed è morto, ma il suo sguardo ci sopravvive. Sofia è viva, ma la sua voce è stata zittita.

E tra quei due gesti — l’eliminazione del testimone e la rimozione della bandiera — corre la stessa pulsione: zittire. Rimuovere. Cancellare.

C’è un genocidio in corso. E come ogni genocidio, ha bisogno di due cose per compiersi: le armi del carnefice e il silenzio dello spettatore. La prima si chiama guerra. La seconda si chiama complicità.

Uccidere un bambino-testimone non è solo un crimine. Obbligare una cittadina a togliere una bandiera non è solo un abuso. Sono entrambi atti sacrileghi.

Vogliono cancellare la verità, riscriverla, ridurla in cenere. E la verità, oggi, è svanita.

Sventolava da un balcone. Aveva dodici anni. Ci guardava. Con occhi pieni di sabbia. E di disperata speranza.