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30/12/2025 ore 07.34
Opinioni

Il caso Signorini, le dimissioni e la gogna mediatica: la reputazione distrutta da un hashtag

Il caso del giornalista milanese che ha lasciato gli incarichi Mediaset diventa paradigmatico di una deriva più ampia: quella per cui la reputazione di un individuo può essere compressa, ridotta, talvolta annientata

di Ernesto Mastroianni
Alfonso Signorini

La vicenda che ha condotto Alfonso Signorini a rassegnare le dimissioni dagli incarichi Mediaset, si è consumata con una rapidità che dice molto più del nostro tempo che del singolo episodio. Poche ore dopo la prima puntata di Falsissimo, ancor prima che i contorni dei fatti si chiarissero, il “caso Signorini” era già stato impacchettato, semplificato, digerito e risputato nello spazio pubblico, come verità conclusa, come colpa definitivamente accertata. Non un tempo di attesa, non una sospensione del giudizio, non una cautela interpretativa: solo la corsa sfrenata alla presa di posizione, all’indignazione esibita, alla condanna popolare.

Ed è qui che si innesta, con tutta la sua violenza sistemica, la questione dei social network, autentico motore di questa metamorfosi della cronaca in tribunale popolare. I social non si limitano più a ospitare opinioni, fanno molto di più, le organizzano, le esasperano, le indirizzano. Trasformano ogni fatto in un’aula giudiziaria senza giudici, senza regole, senza istruttoria, in cui milioni di persone, armate di tastiera e di una presunta conferma morale, si sentono investite del diritto – se non del dovere – di emettere sentenze irrevocabili.

Nel caso di Signorini, questo meccanismo si è manifestato in tutta la sua evidenza patologica. Il principio della presunzione di innocenza, già fragile nel discorso mediatico tradizionale, viene completamente dissolto nell’ecosistema digitale, dove l’accusa coincide con la colpa e la percezione sostituisce la prova. I social operano per sottrazione: sottraggono complessità e sottraggono contesto. Scompare la riflessione. Esiste solo il verdetto.

La realtà, che è per definizione estremamente complessa, stratificata, contraddittoria, ambigua, viene compressa in una narrazione binaria: colpevole o innocente, dentro o fuori, da salvare o da espellere. È il trionfo di una giustizia moralistica ed emotiva, derelitta all'analisi.

Il “caso Signorini”, allora, diventa paradigmatico di una deriva più ampia: quella per cui la reputazione di un individuo può essere compressa, ridotta, talvolta annientata, nel tempo di un hashtag. E questo non va bene, perché prima di scrivere, bisognerebbe sapere con certezza e con dovizia di conoscenza. D'altro canto, ogni circostanza – anche quella apparentemente marginale, anche quella che sembra irrilevante – merita una riflessione approfondita.

A questo clima già degradato si sovrappone poi ciò che ha fatto Fabrizio Corona, portando la vicenda su un piano ancora più inquietante. Qui non siamo più nell’ambito dell’interpretazione o del giudizio pubblico, ma nella violazione deliberata e brutale dell’intimità. Esporre la sfera sessuale di una persona, renderla materia di racconto, di spettacolo, di monetizzazione, significa varcare una soglia etica che nessuna giustificazione mediatica può rendere accettabile. E ora dobbiamo essere sinceri, anche con noi stessi, a nessuno piacerebbe vedere la propria intimità sessuale spiattellata sui social, su YouTube, offerta in pasto a una platea anonima e vorace.

Tuttavia, abbiamo perso il gusto di interrogare i dati, prendiamo per oro colato ciò che viene detto, senza interrogarsi sulle fonti, sulle intenzioni, sugli interessi che muovono certe rivelazioni. La parola pronunciata diventa automaticamente vera, il racconto diventa fatto. Non abbiamo neppure atteso di ascoltare l'altra campana (quella di Signorini). È un cortocircuito culturale devastante, che trasforma l’informazione in arma e il pubblico in complice inconsapevole.

Il caso Signorini, allora, non è solo una storia individuale, ma uno specchio. Riflette una società che ha smarrito il senso del limite, della cautela, della complessità. Una società che confonde la velocità con la lucidità e l'opinione con la giustizia. Finché non recupereremo il valore dell’analisi, del silenzio riflessivo, del dubbio come forma di intelligenza, continueremo a costruire tribunali ovunque, a distruggere reputazioni in tempo reale e a chiamare tutto questo, con inquietante leggerezza, “opinione”.