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14/07/2025 ore 20.35
Opinioni

Il coraggio di non sottrarsi: quando la protesta diventa scorciatoia e la maturità un like

Dopo i casi di Padova e Belluno, anche a Treviso uno studente diserta l’orale dell’esame di Stato. É dissenso o fuga? Intanto il ministro Valditara annuncia la stretta: «L’anno prossimo sarete bocciati»

di Francesco Vilotta

C’è un’aula vuota da qualche parte a Treviso. Una cattedra spoglia, una commissione pronta ad ascoltare, le tapparelle abbassate per il caldo. Doveva esserci un ragazzo, diciottenne, a parlare. A rispondere, a raccontare cinque anni della sua vita. Ma quella sedia è rimasta vuota. Terzo caso in Veneto.

Dopo Padova e Belluno, anche a Treviso uno studente ha deciso di non presentarsi all’orale dell’esame di Stato. È passato comunque, grazie ai crediti. Poco più di sessanta. Quanto basta per uscire, salutare e chiudersi la porta alle spalle.

Questa non è solo una notizia. È un’immagine. Ed è questa l’immagine che ci resterà dell’Esame di Maturità del 2025: non una mano che scrive, non una voce che argomenta, non uno sguardo emozionato o teso. Ma una sedia vuota.

E su quella sedia vuota ognuno sta costruendo la propria narrazione. Il Ministro Valditara ci ha già costruito sopra una riforma: “bocciatura per chi si sottrae”.
Dall’altra parte, la Rete degli Studenti Medi alza i toni: “è dissenso”, “è protesta contro la scuola del merito”, “è un atto politico”. In mezzo, restano i volti. I ragazzi. E i loro silenzi.

Ma davvero abbiamo capito cosa sta accadendo? Davvero pensiamo che il cuore del problema sia decidere se punire o celebrare? Io credo che, prima ancora di schierarci, dovremmo fermarci. E porci una domanda semplice: perché? Perché tre ragazzi, in tre città diverse, hanno fatto la stessa scelta? Perché il rito di passaggio più importante della scuola italiana è stato rifiutato – non contestato, non criticato, ma saltato?

Dobbiamo chiederci se dietro questo gesto ci sia un dolore muto, una forma di ribellione, o solo una moda, una sfida social travestita da presa di posizione. È questa la differenza tra il dissenso e il capriccio. Ed è una differenza sottile, sottilissima. Ma decisiva.
Un tempo il dissenso era lotta. Era voce, confronto, assemblea, volantinaggio, dialogo, anche scontro. Era fatica. Era mettersi in discussione, argomentare, rischiare.

Oggi rischia di diventare un gesto istantaneo, un “no” secco, un post ben scritto, una sedia vuota da far girare sui social. Ma senza parole, senza dibattito, senza conseguenze. La Rete degli Studenti lo chiama “atto politico”. Forse. Ma quale politica nasce dal rifiuto di parlare?

Abbiamo bisogno, ora più che mai, di fare domande ai nostri ragazzi. E di insegnare loro a farle a loro volta. Chi siete? Cosa volete? Di cosa avete paura? Vi siete mai chiesti cosa volete cambiare, e come farlo? Avete mai pensato che la vera rivoluzione non si fa con un’assenza, ma con una presenza più forte, più profonda, più inquieta?

Certo, è vero: la scuola è stanca, ingessata, spesso sorda. Troppo spesso riduce le vite a numeri, a voti, a griglie. La cosiddetta "scuola del merito" sa di azienda più che di comunità. E molti docenti hanno smesso di educare, limitandosi a istruire.

Ma allora perché non dirlo? Perché non salire su quella sedia, davanti alla commissione, e dirlo? Perché il vero coraggio, oggi, è affrontare. È dire. È guardare in faccia ciò che non funziona e metterci la voce.

La sedia vuota è un’immagine forte, sì. Ma ha il fiato corto. È un pugno nello stomaco che non lascia alcuna traccia se non viene accompagnato da pensiero, da parole, da confronto.

È anche per questo che non possiamo giustificare tutto. Non possiamo, da adulti, applaudire qualsiasi forma di ribellione purché rappresenti una reazione, o comunque qualcosa che vada contro il sistema.

A noi spetta un altro compito: ascoltare, sì. Ma anche decidere, educare, indirizzare. Perché un ragazzo non ha bisogno solo di approvazione. Ha bisogno di senso. Di direzioni. Di qualcuno che lo prenda sul serio.

E prendere sul serio significa anche dire: questo no. Questo è un gesto debole, non forte. Questo non è cambiare il mondo. È sottrarsi. E sottrarsi non è mai una conquista. Lo diceva Gaber: la libertà è partecipazione. Non scomparsa.

Dovremmo insegnare che le battaglie non si vincono con l’assenza, ma con la parola. Che la maturità – non l’esame, ma quella vera – è affrontare anche ciò che non ci piace. E provare a cambiarlo da dentro.

Che crescere significa anche sbagliare, cadere, soffrire. Ma sempre restando nel gioco, non fuggendo via. In fondo, non è questo che chiediamo ai nostri figli? Non di essere perfetti. Ma di provarci. Di non mollare. Di non voltarsi.

Perché la vera rivoluzione, quella che cambia le cose davvero, non fa rumore. Non ha hashtag. Costruisce. Un mattone alla volta. Dentro le scuole. Dentro le famiglie. Dentro le coscienze. E quando serve, urla. Ma non scappa. Mai.