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02/08/2025 ore 21.58
Opinioni

Il lamento, l'eredità della tragedia greca nella cultura calabrese di ieri e di oggi

L’espressione del dolore è forma di resistenza, non è solo un retaggio del passato ma una forma di narrazione presente, un ponte tra l’antico, il moderno e il contemporaneo

di Ernesto Mastroianni
Il teatro greco romano di Locri Epizefiri (da Wikipedia)

C'è un filo antico, che attraversa i secoli e i mari, e giunge fino alla Calabria, terra ruvida e tenace, sospesa tra l'Aspromonte e lo Jonio. È il filo della tragedia greca, della parola sofferta e rituale, del pianto che si fa canto, del dolore che si fa teatro. In Calabria il lamento non è soltanto una manifestazione del dolore individuale, ma un atto culturale e collettivo, una sopravvivenza ancestrale di quella grande civiltà che, partendo da Corinto e Atene, mise radici nella Magna Grecia calabra. Qui, più che altrove, l’eredità della tragedia greca si è conservata nei gesti, nei riti, nella musica popolare.

È sufficiente scendere verso la Costa Jonica per scoprire le vestigia del mondo antico e dell'armonia teatrale greca. Locri Epizefiri, Rhegion (oggi Reggio Calabria), Kroton, Kaulonia: nomi che risuonano ancora di classicità, città fondate tra l’ottavo e il settimo secolo a.C. dai coloni greci, che portarono con sé non solo architettura e filosofia, ma anche teatro, poesia, e soprattutto il mito tragico. Qui la tragedia greca non fu mai solo spettacolo, ma rito comunitario. I teatri, come quello di Locri, si affacciavano sulla vastità del mare, quasi a suggerire che il dramma dell’uomo si svolgeva sotto gli occhi degli dei e del destino, in una natura possente. Il mare è sempre stato nei secoli, rappresentato, sia nella letteratura classica, sia nella letteratura moderna (italiana, inglese, francese) come simulazione e dissimulazione di una natura potente, a tratti pericolosa. Il tutto sotto lo sguardo degli dei. Forse per questo motivo i teatri si affacciavano sul mare. Ne è un esempio anche il teatro di Taormina.

La Calabria, terra aspra e difficile, trovò nella tragedia greca uno specchio perfetto della propria condizione storica. L’idea che la vita fosse lotta, che il dolore fosse parte centrale del mondo e della vita, che la catastrofe fosse un destino da cantare e non da evitare, si radicò in profondità nella coscienza collettiva. Quasi come una rassegnazione necessaria. Da lì si espresse, nei secoli, attraverso i lamenti funebri, le invocazioni, le preghiere e le narrazioni orali.

Nella tragedia greca, il lamento (threnos) era un elemento centrale. Le figure femminili, in particolare, piangevano i morti con canti strazianti, danze lente, movimenti rituali. Non era solo teatro, era catarsi, era sublimazione del dolore, ricerca di pace. Le donne di Locri o di Rhegion, al tempo di Euripide e Sofocle, assistevano alle rappresentazioni e partecipavano emotivamente a quei lamenti: Antigone, Ecuba, Medea parlavano la loro lingua interiore.

Oggi, nelle zone più interne della Calabria – da Gerace a San Luca, da Bova a Civita – i lamenti funebri resistono come forma culturale viva. Donne vestite di nero, le prefiche, piangono il defunto secondo formule tramandate oralmente, cantano la vita e la morte, invocano i santi, maledicono la sorte (le prefiche erano donne pagate, sin dall'antica Grecia, per piangere e lamentarsi in occasione dei funerali). È un teatro del dolore che sembra uscire direttamente da una tragedia di Eschilo. Il linguaggio è simbolico, poetico, mai banale; spesso il lamento diventa una narrazione, una piccola epopea dell’uomo che lascia la vita.

Lo scrittore Corrado Alvaro, nella sua celebre opera Gente in Aspromonte, racconta dei pastori e contadini calabresi che, pur non sapendo leggere né scrivere, possiedono una sapienza antica, fatta di proverbi, racconti e canti: “Il dolore non si tace, si canta”. Un’espressione che sembra la sintesi perfetta della funzione catartica del lamento.

In Calabria, il senso della tragedia si fa identità collettiva. Non si tratta solo di subire la sofferenza, ma di narrarla, di esorcizzarla. La cultura calabrese ha fatto del lamento una forma di resistenza. Dalla poesia dialettale di Otto Saggiatore alle canzoni popolari della Grecìa Calabra, ogni parola sembra echeggiare quell’antico dolore. Persino nella tarantella, danza apparentemente gioiosa, si cela il ritmo ossessivo del destino, la circolarità del tempo, la necessità di danzare per non soccombere.

La tragedia greca sopravvive anche nei racconti della ’ndrangheta, nella letteratura criminale e popolare: storie di vendetta, di hybris, di colpa e punizione. In Anime nere (2014) di Gioacchino Criaco, la narrazione della violenza nella Locride si colora di toni tragici, epici, come se la storia non potesse fare a meno di seguire i passi di Edipo o di Oreste.

In tempi contemporanei, il lamento calabrese ha trovato nuove vie. Artisti come Mimmo Cavallaro e Francesco Loccisano hanno recuperato il patrimonio musicale dei lamenti funebri e lo hanno trasformato in concerti, in memoria viva. Alcuni registi calabresi, come Giuseppe Gagliardi, hanno usato la struttura tragica per raccontare storie di emigrazione, di abbandono, di perdita.

Il lamento non è dunque un retaggio del passato, ma una forma di narrazione presente, un ponte tra l’antico, il moderno e il contemporaneo. Nel linguaggio quotidiano, nel modo di parlare e di raccontare dei calabresi, risuona quella nota grave, quel gusto della malinconia e della lamentazione che non è sterile pessimismo, ma coscienza tragica della vita.

Spesso si sente dire: “Voi calabresi vi lamentate per tutto", simpaticamente potremmo rispondere che il lamento fa parte della nostra cultura storica e letteraria. E, infatti, è proprio così. Noi Calabresi sublimiamo tutto, dolore, noia, tutto, tramite "il lamento".

In Calabria, il dolore è un teatro naturale. Le montagne, il mare, i silenzi delle campagne, tutto sembra predisposto alla messa in scena di una tragedia senza tempo. Il lamento è il canto di questa terra, un’eco che risale dalle antiche polis della Magna Grecia, attraversa i secoli e si fa voce nelle bocche dei calabresi di oggi.

Il dolore, diceva Euripide, non si cura, si canta. In Calabria, questo è ancora vero. E quel canto – tremendo, straziante, ma profondamente umano – è forse la più autentica eredità che la tragedia greca abbia lasciato a questa terra di silenzi e parole, di memoria e sfogo, di lamento e resistenza.