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06/10/2025 ore 11.03
Opinioni

La poesia come antidoto allo smarrimento (e alla ferocia) dell’uomo

Dalle trincee di Ungaretti alla voce di Celan, la poesia resta memoria e coscienza dell’umanità ferita, un canto che resiste alla guerra e al silenzio

di Aleandro Fusco

L'uomo che dimentica la poesia, dimentica sè stesso. Il globo pare oscillare come fragile foglia al vento, i conflitti, ancora una volta implacabili, travolgono civili innocenti, dilaniando vite e speranze, distruggendo città che un tempo furono grembo di canti, risate, famiglie. L’umanità intera, costretta a guardarsi allo specchio della propria ferocia, si scopre ferita nelle viscere stesse della sua dignità e milioni di persone rimango impotenti dinanzi a questi scenari.

Eppure, tra le guerre, si leva l’eco immortale della parola che consola. Ricordiamo: Giuseppe Ungaretti, nell’inferno delle trincee della Prima Guerra Mondiale, aveva saputo levare la sua voce breve e lancinante come una lama:

"Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie."

Con questi versi, contenuti nella poesia Soldati, il poeta riassume la fragilità dell’uomo immerso nella brutalità del conflitto. Ungaretti, testimone diretto, ha offerto al mondo versi di sofferenza nuda, la precarietà dell’esistere in mezzo alla morte. Salvatore Quasimodo, scrivendo in un’Italia piegata dal conflitto, gridava:

"E come potevano noi cantare

Con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento."

In questo lampo di verità si condensa la tragedia della guerra. E come non evocare l’ampia ombra di Bertolt Brecht, che ha denunciato con vigore la follia bellica e le sue conseguenze sui più deboli? Nella sua poesia Domande di un lettore operaio si cela un’idea potente: la storia ufficiale narra dei re e dei condottieri, ma dimentica i lavoratori, i poveri, i civili annientati dalle guerre altrui. Scrive Brecht:

"Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Nei libri stanno i nomi dei re.

I re trascinarono i blocchi di pietra?"

Così, con ironia e gravità, Brecht ci ricorda che i veri protagonisti delle guerre sono le masse anonime, coloro che subiscono, che si sacrificano e lottano quotidianamente e non coloro che comandano. E in Europa centrale, un’altra voce ha saputo dare forma al dolore della Shoah: Paul Celan. Sopravvissuto all’orrore, egli scrisse la Todesfuge, che rimane uno dei testi più tragici del Novecento:

"...

Nero latte dell'alba ti beviamo la notte

ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco

ti beviamo la sera e la mattina e beviamo e beviamo

la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro

ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso

nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete

aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell'aria

gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d'oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith"

Celan, ci conduce dentro l’abisso della disumanità, trasformando la memoria in canto funebre e anche come monito perenne. Oggi, di fronte ai conflitti, siamo chiamati a tornare a queste voci, di lasciarci ferire dalla loro testimonianza. La poesia conserva la memoria, protegge la coscienza, ridona al dolore una forma che lo sottrae all’oblio.

Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo
“Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.”

E allora, dinanzi al mondo lacerato, dobbiamo imparare a contemplare gli occhi dei bambini senza casa, le mani dei vecchi tremanti, il silenzio delle madri che non hanno più voce. La guerra, con il suo fardello d’ombre, ci ammonisce che l’uomo, quando dimentica la poesia, dimentica sè stesso.