L’assalto al portavalori in autostrada è il simbolo di una Calabria abbandonata dalla politica degli slogan
Fahrenheit 2025 | La nostra regione è sempre più schiacciata da povertà, isolamento e istituzioni incapaci di affrontare le cause strutturali del crimine. E no, dichiarare uno stato emergenziale non risolve le cose
L’ennesimo e sensazionale assalto ad un portavalori sulla A2 del Mediterraneo, nel cuore della Calabria, arriva come un martello che batte su ciò che tutti vedono, ma che la politica preferisce non vedere: una regione che continua a occupare l’ultimo posto nelle classifiche sulla qualità della vita.
Il quadro tracciato dalle rilevazioni ISTAT presenta un quadro impietoso di un territorio dove servizi, prospettive, idee ed infrastrutture restano sospese in una sorta di limbo storico, dove tutti bloccano tutti e tutti e dove ognuno si crede più furbo, in una commedia spazio temporale dove la modernità è forse arrivata solo per passare oltre.
Il 2025 mette Reggio e provincia sotto esame: nuovo tonfo negli indicatori economici, ambientali e demografici - I DATIOltre ad essere falcidiata da problemi strutturali, la Calabria porta anche il fardello di essere governata da una classe politica inadeguata, le cui dichiarazioni grottesche fanno perdere il senso dell’orientamento. Subito dopo il fatto, Wanda Ferro ha infatti attribuito la responsabilità addirittura al Partito Democratico, accusandolo di aver “ridotto la presenza delle forze dell’ordine”.
Lungi da me difendere il Partito Democratico, ma sentire un rappresentante dello Stato fare una lettura così semplice e banale è tremendamente disarmante. Qualsiasi persona che abbia un minimo di razionalità sa benissimo che non esiste nessuna correlazione diretta tra la massiccia presenza delle forze dell’ordine ed il numero di reati. Senza citare Gramsci e le sue teorie sul dominio senza autorevolezza, è un vizio storico della politica italiana, quando vuole evitare di affrontare i problemi strutturali, invocare l’emergenza, lo stato di eccezione, usare l’emozione con lo slogan più comodo è sempre lo stesso: “Aumentiamo le divise e il crimine sparirà.”
Peccato che non sia vero. Basta guardare Ciudad Juárez, che negli anni peggiori della sua recente storia, tra il 2009 e il 2011, aveva fino a 10.000 militari e poliziotti dispiegati nelle strade, con un rapporto forze dell’ordine/abitanti tra i più alti del mondo. Eppure la città registrava oltre 3.000 omicidi l’anno, arrivando a superare i 230 omicidi ogni 100.000 abitanti, arrivando ad un livello di violenza da zona di guerra, nonostante un controllo militare capillare ed una presenza ossessiva di ogni forza di repressione.
Se l’esercito non è bastato lì, non sarà certo qualche pattuglia in più a risolvere i problemi della Calabria, non è una volante che fa una piazza pulita, non solo le sirene che fermano il crimine. Il crimine non nasce dall’assenza di lampeggianti, ma dall’assenza di opportunità, dalla cattiva gestione del territorio, dall’uso strumentale della criminalità stessa. E usare l’emergenza come distrazione serve solo a non guardare le cause vere che generano forme di criminalità e violenza: povertà, isolamento, marginalità, territori lasciati soli, giovani abbandonati a destini incerti.
Oggi più di prima, viviamo inoltre in un’epoca che frammenta ogni legame e dissolve ogni lettura profonda. La società calabrese, come molte aree marginalizzate del Paese, conosce bene la dissoluzione dei legami familiari, comunitari, lavorativi. La solitudine del digitale, come direbbe Byung-Chul Han, non è più un effetto collaterale, ma è una condizione strutturale del nuovo modo di governare le persone, come lo è l’austerità e come lo è la guerra. E nel vuoto lasciato dai rapporti umani, dalla comunità, dalla fiducia, prolifera qualunque forma di disordine, prolifera quel disincanto che allontana i cittadini dallo stato.
La criminalità organizzata, in particolare, si nutre delle assenze: assenza di lavoro, di futuro, di rappresentanza. Ma assenza di Stato nel senso profondo, non nel senso di automobili e pattuglie, anche perchè commandi così organizzati non esiterebbero ad usare la violenza più bruta.
La verità è che In Calabria il terreno del disagio è già arato e preparato da anni: redditi bassi, mobilità inesistente, lavoro fragile, giovani in fuga. Quando una regione perde le sue energie migliori e non offre alternative, il vuoto non resta mai vuoto. Qualcuno lo occupa, e non bastano Sandokan o Rocco Papaleo, perchè sono presenze effimere. Bisogna capire che è proprio in quello spazio abbandonato dallo Stato e dalle opportunità che si infilano non solo i clan, ma interi ecosistemi illegali di sopravvivenza, che diventano per molti giovani più credibili delle istituzioni stesse.