L’odio in crescita, la pace in ritirata
Crimini d’odio ai massimi storici, guerre senza fine da Gaza all’Ucraina, spese militari record: mentre la democrazia perde consensi, il mondo rischia una spirale di disintegrazione
C’è un ragazzo che cade sotto i colpi di un altro ragazzo, in un campus americano. Una pistola, un nome inciso sulle munizioni, un’ideologia fatta di odio razziale e disprezzo per chi ama in modo diverso. Non è solo cronaca nera: è un presagio. Ogni volta che un giovane imbraccia un’arma in nome di un rancore, il mondo intero si avvicina al baratro.
Non serve un trattato di geopolitica per capire che l’aria del pianeta è malata. Basta guardare le cifre: nel 2024, l’FBI ha registrato 11.679 crimini d’odio, il numero più alto da quando si misura. Bersagliati soprattutto neri, ebrei, uomini gay. L’Anti-Defamation League parla di un antisemitismo “ai massimi storici”, mentre il Council on American-Islamic Relations denuncia un’esplosione di episodi islamofobi dopo il 7 ottobre.
La guerra a Gaza non ha confini: brucia lì, ma incendia anche le nostre città. Eppure non è solo questione di numeri. È questione di simboli. Perché mentre in America un estremista spara a un politico, in Europa i carri armati scavano solchi di sangue tra i campi dell’Ucraina. Più di tre anni di guerra, oltre mezzo milione di morti e feriti stimati, dieci milioni di sfollati, e la minaccia nucleare evocata come una bestemmia quotidiana.
Dall’altra parte del Mediterraneo, a Gaza, i corpi dei bambini vengono raccolti sotto le macerie o piegati dalla fame. L’ONU parla di carestia indotta, di malnutrizione acuta tra i minori. Il conto delle vittime palestinesi ha superato le 40.000 unità. E quando sembrano arrivare pacchi di aiuti dal cielo, anche lì la morte trova la sua trappola: più di un bambino è rimasto schiacciato dal peso di quelle casse, dal peso di una speranza che si è fatta bara.
Il paradosso è feroce: mai come oggi il mondo ha speso tanto in armi — 2.718 miliardi di dollari nel 2024, decimo anno consecutivo di crescita — e mai come oggi la sicurezza è sembrata così fragile. Più ci armiamo, meno ci fidiamo. Più ci urliamo addosso, meno ci capiamo. È come se stessimo pagando l’assicurazione per la casa mentre lasciamo la porta spalancata.
C’è una spirale che si avvita: dall’odio online, che i social alimentano con i loro algoritmi, alla violenza nelle piazze, fino ai massacri sui fronti di guerra. Un vortice che parte dal rancore quotidiano e finisce nei bilanci militari: dalle fake news sui telefoni alla fame di intere popolazioni. Secondo l’ONU, una persona su sette oggi vive direttamente in un’area di conflitto. È la spirale di questo secolo: quello che doveva essere della connessione e invece rischia di diventare quello della disintegrazione.
Io non ho la risposta. Ma una domanda sì: fino a quando possiamo sopportare di guardare i nostri figli crescere dentro questa educazione all’odio? Fino a quando accetteremo che le università diventino armerie, che le piazze diventino fronti, che le case diventino obiettivi? Il dato è freddo e tagliente: il 58% degli abitanti del pianeta si dichiara insoddisfatto della democrazia. Sfida che si aggiunge alla caduta della libertà di stampa, la più netta degli ultimi cinquant’anni. E allora la domanda diventa più dura: cosa resta di un secolo che ha perso fiducia nella politica, che censura la stampa, che trasforma i social in tribunali e i fucili in argomenti?
Le proiezioni per il futuro non sono belle, e non servono profeti: se questa spirale non si spezza, l’umanità entrerà in uno dei suoi autunni più bui. L’ONU lo ripete: basterebbe deviare una piccola parte della spesa militare per sfamare chi muore di fame, per istruire chi non ha scuola, per ridare respiro a chi soffoca sotto le macerie. Non è retorica, è aritmetica: un miliardo di dollari in meno in armi, un miliardo in più in ospedali, scuole, pane.
Eppure il secolo continua a correre verso il baratro. Ci vorrebbe un atto di coraggio collettivo: spegnere il linguaggio dell’odio, disarmare le parole prima delle mani, ridare senso a quella parola che sembra ridicola e fragile: pace. Non per bontà, ma per sopravvivenza.
Perché il rischio, e dobbiamo dircelo senza più ipocrisia, è che un giorno ci sveglieremo e capiremo che la spirale dell’odio non ha più fine. E allora non sarà più un secolo da raccontare, ma un secolo da rimpiangere.