L’oscenità al potere. Appunti sul trionfo della volgarità
Decoro distrutto, etichetta cancellata. Donald Trump è il simbolo perfetto di questo passaggio. Ma anche in Italia non mancano gli esempi: da Bandecchi a Sgarbi, da Grillo a Meloni
Ho sempre pensato che la storia della civiltà umana potesse essere narrata anche come una storia della sua lingua. Non della lingua in senso grammaticale, ma della lingua come forma del pensiero, del pudore, della convivenza. Ebbene, oggi, mentre scrivo questo pezzo, sento che quel filo si è spezzato. La lingua si è degradata. La parola è stata profanata. La volgarità ha vinto.
Il potere, non quello silenzioso e borghese, ma quello urlato e onnivoro del nuovo capitalismo spettacolare, ha abbandonato ogni pudore. Un tempo si nascondeva nei salotti e nei palazzi ovattati, vestiva giacche di lana inglese, parlava per allusioni. Oggi si mostra in mutande, grida, sputa, impreca. Un tempo il potere era misurato, oggi è osceno. E se è osceno, è perché la sua lingua è la volgarità.
Donald Trump, colui che si definisce uomo del popolo ma è figlio della speculazione e della finanza, è il simbolo perfetto di questo passaggio. Non ha introdotto la volgarità, l’ha incoronata. Non ha distrutto il decoro, l’ha dichiarato ridicolo. Non ha cancellato l’etichetta, l’ha chiamata debolezza. In lui, nel suo sguardo sardonico, nei suoi insulti plastificati, nei suoi tweet grondanti testosterone e autocompiacimento, vive l’archetipo dell’uomo nuovo: volgare, impudente, idolatrato.
Quando Nikita Kruscev, nel 1960, si tolse una scarpa durante un’accesa sessione dell’ONU e la sbatté sul tavolo, parve allora il massimo della volgarità accettabile. Oggi, quel gesto è quasi cerimoniale rispetto alle parole pronunciate dal presidente degli Stati Uniti durante una cena di raccolta fondi: «Questi Paesi ci chiamano, mi baciano il culo, stanno morendo dal desiderio di fare un accordo». Subito dopo, non pago, ha rincarato la dose: «Per favore, per favore signore, fai un accordo. Farò qualunque cosa, signore». E infine: «Molti Paesi ci hanno fregato da destra e sinistra, e adesso è il nostro turno di fregarli».
“Fregare” diventa un verbo di Stato. «L’Europa ha fatto fortuna alle nostre spalle», aggiunge. «Ora vogliono parlare, ma non c’è niente da dire a meno che non ci paghino un sacco di soldi». E ancora: «Voi non negoziate come negozio io». Non bastasse la rottura della grammatica istituzionale, ecco il colpo finale: «Non essere un PANICAN!». Panican: crasi tra “panic” e “republican”, insulto e slogan, farsa e potere. «I panicani sono dei perdenti e dei falliti!», rilancia Marjorie Taylor Greene. Il sarcasmo è virale: «Quando ho sentito che Trump ha creato la nuova parola panican ho pensato che significasse che oggi avremmo invaso Panama e il Canada!».
Ma la volgarità di Trump non è un caso isolato: è un modello. Elon Musk lo imita, su X, rivolgendosi al consigliere Peter Navarro: «È più stupido di un sacco di mattoni». Navarro aveva osato definirlo “un semplice assemblatore di auto”. La risposta? Un insulto. Il dialogo politico? Scontro tra egocentrismi in mondovisione. Il linguaggio: quello del bar, del social, del meme.
E in Italia? Non scherziamo. Anzi, anticipiamo. La volgarità ha trovato in noi un laboratorio perfetto.
Nel maggio scorso, a Caivano, la presidente Meloni — nel pieno di un comizio molto teso — lancia un affondo diretto al governatore della Campania: «Invece di protestare, De Luca dovrebbe lavorare». È un attacco asciutto, calcolato, ma che scivola sul piano personale. De Luca, il “Terminator del Vulture”, non si fa pregare e risponde a muso duro, disboscando i lacci della buona creanza: «Lavora tu, stronza!». La parolaccia non è uno scivolone: è una clava. Una resa dei conti in pubblico, in presa diretta.
Non passa molto tempo, e durante una successiva visita istituzionale, la presidente Meloni — col piglio teatralmente spavaldo che ormai la contraddistingue — si avvicina al governatore della Campania, gli stringe la mano, e con un ghigno complice, dice: «Presidente De Luca, quella stronza della Meloni, come sta’?». È il trionfo della recita volgare. L'insulto ricevuto viene assorbito, metabolizzato e rilanciato come battuta d’autore. La parolaccia si fa gag, si fa identità pubblica. Non è più un’offesa da respingere, ma un marchio da indossare con fierezza. E così la politica italiana, anziché sollevarsi dal fango, ci si rotola dentro, e ride. Come in una sceneggiata napoletana diretta da un autore minore, ma senza il genio e la pietà. Il cerchio si chiude: l’insulto diventa identità, la volgarità si trasforma in marca politica, la parola oscena diventa medaglia da appuntarsi sul petto.
E che dire di Stefano Bandecchi? Sindaco di Terni, ex paracadutista, trasforma il Consiglio comunale in un corpo a corpo verbale: «L’uomo normale guarda il culo di una donna e, se ci riesce, se la tromba pure». Il corpo, da sempre linguaggio della verità, viene qui degradato a linguaggio del possesso. È pornografia del potere.
Poi c’è Sgarbi, allora dimissionario, ma non pentito. Intervistato, augura la morte al giornalista: «Spero che tu abbia un incidente e ti schianti, faccia di merda!». E minaccia, in diretta, di estrarre il suo fallo davanti alla telecamera. È il corpo usato come ricatto, come vendetta, come disprezzo.
Il generale Vannacci, nuovo eroe dell’Italia che non ci piace, chiama le femministe “fattucchiere”, i gay “persone non normali”, e gli uomini che uccidono le donne “mollaccioni smidollati”. Progetta caserme per tutti. Punizioni. Obbedienza. Il linguaggio è quello della prevaricazione, del fascismo domestico.
E poi c’è Salvini, con la sua cravatta rossa da Trump italiano. Pronto a trovare un capro espiatorio per ogni problema: l’immigrato, la mascherina, la burocrazia. È l’uomo che sa sempre a chi dare la colpa. Che si presenta come il buon senso, ma parla come un bullo. Che si veste da statista, ma urla da influencer.
Bossi lo aveva anticipato, con il suo dito medio e la camicia sbottonata: «D’Alema vorrebbe tenere me per le palle come tiene Berlusconi per i coglioni, ma le mie non gli stanno in mano’». «Ce l’abbiamo duro!». Linguaggio triviale, primitivo, fallocentrico. Ma efficacissimo. Parlava all’istinto, saltava la ragione. E Berlusconi? Il grande burattinaio della volgarità italiana. Le barzellette sconce ai comizi. Le “olgettine”. Gli insulti ai magistrati. La “mignottocrazia” come stile di governo.
Poi arrivò Grillo. Il suo “Vaffanculo” fu una rivoluzione semiologica. Una parolaccia che divenne prima ispirazione, poi idea e infine partito. Un dissenso che si fece voto. Era il Robin Hood della rabbia popolare, l’uomo che sputava contro “loro”, contro il Palazzo, contro i salotti.
Così, negli anni, la politica si è trasformata in cabaret. I talk show in arena. I social in tribunali sommari. Ogni parola è un colpo. Ogni frase, un titolo. Ogni insulto, un applauso. Il linguaggio non è più riflessione, è performance. Non è più elaborazione, è urlo. Non è più dialettica, è show.
La televisione e lo spettacolo intorno alla politica sono il vero potere di questo tempo. Non il Parlamento, non i partiti. La TV. E oggi, i social ne sono l’estensione virale. È qui che si crea il consenso. È qui che si misura la forza. E in questo nuovo tempio, la liturgia è la volgarità. Perché la volgarità funziona. Perché la volgarità fa ascolti. Perché la volgarità consola.
I sismografi sociali ci dicono che la crescente violenza verbale è figlia della paura, del vuoto, della rabbia. E allora chi grida sarà premiato. Chi offende sarà illuminato. E intanto la complessità viene presa a calci. Le soluzioni ignorate. La politica ridotta a slogan.
Mi chiedo: questa è davvero l’eredità che merita l’America di John F. Kennedy e Martin Luther King?
E l’Italia? La nostra Italia, quella delle madri, delle periferie, dei ragazzi con i libri sotto il braccio, si riconosce in questo circo osceno?
Io continuo a pensarla come Nanni Moretti, e che le parole sono importanti. Che la lingua abbia un’anima. Che il corpo sia sacro, e che la politica sia ancora un atto poetico. Per questo, guardando questo indecente spettacolo, mi sento oggi fuori posto. Ma anche più deciso che mai a non accettare questa oscenità come inevitabile.
Perché dove trionfa la volgarità, comincia la barbarie.