Non chiamatelo “confermativo”: il referendum costituzionale è uno strumento di opposizione
Un’evidente torsione politica snatura in maniera strumentale il significato della consultazione popolare sulla riforma della Giustizia. Pensata dai Padri costituenti per dare voce alla minoranza, viene presentata invece come il modo per legittimare le scelte della maggioranza
Il Parlamento – o meglio, la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo – è a un passo dal raggiungere un obiettivo a lungo inseguito: riformare la Costituzione per separare le carriere dei magistrati. Da una parte i giudici, con il compito di giudicare; dall’altra i pubblici ministeri, con la funzione di portare avanti l’accusa.
Va detto subito: questa riforma non tocca i veri problemi della giustizia. Anzi, interviene su un punto che è già stato regolato da una legge ordinaria: oggi, infatti, un magistrato può passare dalla funzione giudicante a quella requirente (o viceversa) solo una volta nella carriera. Eppure, come sempre quando si parla di modificare la Costituzione, le conseguenze sono molto più che rilevanti, anche se non sono da subito evidenti. Il confronto sulla portata della riforma sarà l’oggetto della campagna referendaria, quando i cittadini saranno chiamati a votare su tale questione che è tanto delicata quanto centrale per la nostra democrazia costituzionale. C’è tuttavia un aspetto che merita attenzione immediata: l’aggettivazione del referendum che – per come abbiamo anticipato – seguirà l’approvazione definitiva della riforma al Senato. Tutti ne parlano come di un “referendum confermativo”. Lo fa il Governo, lo ripetono i giornali, ed è stato definito tale fin dal giorno in cui il disegno di legge è stato approvato in Consiglio dei ministri. Ma non è così.
I promotori della riforma – Meloni e Nordio – hanno scelto fin dall’inizio di puntare sul referendum, cercando di un consenso da ottenere direttamente dal “popolo”. Ciò ha avuto, però, un effetto preciso: rinunciare alla ricerca del confronto con le forze dell’opposizione durante tutti i lavori parlamentari. Nel nostro sistema, fondato sulla rappresentanza, il (nobile) patto compromissorio è l’unico modo per arrivare a una maggioranza dei due terzi, che renderebbe il referendum impossibile, perché non si può richiedere la partecipazione popolare se questa è stata già espressa in modo così ampio in un sistema la cui rappresentanza risiede nelle aule parlamentari. Ma la ricerca del confronto (neanche del consenso) è stata da subito evitata: l’obiettivo era proprio quello di arrivare al voto popolare.
Il referendum costituzionale, però, non è stato pensato come uno strumento a disposizione della maggioranza. L’articolo 138 della Costituzione (che definisce il procedimento di revisione costituzionale) non lo appella mai come “confermativo”. Se proprio lo si vuole qualificare con un aggettivo, quello corretto è “oppositivo”: serve a dare voce a chi non è d’accordo, cioè alle minoranze.
Ripetere continuamente che sia “confermativo” è fuorviante: una inesattezza detta mille volte non diventa vera.
Infatti, il referendum costituzionale è un istituto a tutela delle minoranze: quelle parlamentari (un quinto dei membri di una Camera); quella popolare (cinquecentomila elettori); quelle regionali (cinque Consigli regionali).
Ed è per questo che non è previsto un quorum di partecipazione: chiedere alle minoranze di poter raggiungere la maggioranza degli elettori per rendere valido il referendum significherebbe snaturare il senso dello strumento. È la maggioranza parlamentare che piuttosto deve convincere la propria base elettorale della giustezza della riforma, andando, quindi, a votare; per cui è facile prevedere che non ci saranno ripetuti inviti al non voto, come invece è stato fatto, persino dal Presidente del Senato, durante l’ultima campagna referendaria (questa volta abrogativa, e quindi con la presenza del quorum). La richiesta referendaria è, insomma, una tutela, non una conferma, è una opposizione a un progetto che ha già ottenuto la maggioranza dei voti nei luoghi della rappresentanza parlamentare.
Se a richiederlo è la stessa maggioranza che ha votato la riforma, il significato costituzionale dell’istituto si perde, essendo sottoposto a una vera e propria torsione politica. L’articolo 138 della Costituzione prevede il referendum come contrappeso, non come strumento di auto-legittimazione. In teoria, i comitati per il “sì” non dovrebbero invocarlo (come fece a suo tempo Renzi per la sua riforma!): il referendum è degli oppositori, non dei sostenitori.
Chi difende la riforma dovrebbe piuttosto spiegare come la separazione delle carriere risolverebbe davvero i problemi della giustizia, in che modo il sorteggio dei membri del CSM ridurrebbe il potere delle correnti, e se questa previsione sia compatibile con la Costituzione.
Il vero dibattito tra chi sostiene la riforma e chi vi si oppone si aprirà quando il Presidente della Repubblica indirà formalmente il referendum. E lì speriamo almeno che si smetta di chiamarlo “confermativo”: sarebbe già un passo avanti verso un confronto più chiaro e intellettualmente onesto.