Sul caso dei bambini nel bosco, riflessione sul confine tra libertà, tutela e mito bucolico
Nodo essenziale è comprendere fino a quale punto la libertà genitoriale possa spingersi prima che lo Stato sia chiamato a intervenire. È un equilibrio fragile, che richiede attenzione selettiva, rigore analitico e la capacità di non ridurre la complessità a slogan contrapposti
Nelle ultime settimane il cosiddetto "caso della famiglia nel bosco" ha occupato un posto centrale nel dibattito nazionale, trasformandosi rapidamente in un catalizzatore di interrogativi ampi sul perimetro della genitorialità e sul ruolo delle istituzioni nella protezione dei minori. Le reazioni, com’è prevedibile in una società attraversata da sensibilità plurali, si sono polarizzate attorno a due visioni contrapposte: da un lato, chi difende la scelta dei genitori come espressione di una legittima autodeterminazione familiare; dall’altro, chi considera quell’isolamento una condizione potenzialmente pregiudizievole per i bambini e, dunque, tale da richiedere un intervento pubblico.
L’argomentazione dei primi si fonda su un’idea di libertà domestica intesa come spazio inviolabile, in cui lo Stato dovrebbe entrare solo in presenza di rischi evidenti e comprovati. In questa prospettiva, la famiglia — intesa come microcosmo relazionale originario — sarebbe depositaria di una sovranità educativa primaria e difficilmente contendibile. I sostenitori di tale visione richiamano spesso il principio secondo cui un modello alternativo di vita, purché non strutturalmente lesivo, rientra nel diritto dei genitori a plasmare l’ambiente di crescita dei figli secondo le proprie convinzioni culturali, etiche o filosofiche.
La controparte, invece, adotta un approccio fortemente orientato agli indicatori di rischio. Si sottolinea come l’assenza di relazioni sociali, la mancanza di un accesso regolare ai servizi essenziali e un prolungato isolamento geografico e culturale costituiscano elementi che, secondo la letteratura sociopedagogica contemporanea, possono compromettere la capacità del minore di inserirsi in contesti collettivi futuri. A ciò si aggiunge una considerazione giuridica: l’obbligo delle istituzioni di intervenire non nasce soltanto dal rilevamento di un danno già avvenuto, ma anche dal sospetto ragionevole che una condizione attuale possa degenerare in una forma di pregiudizio.
In questo quadro complesso, bisogna riuscire a fare emergere alcuni concetti di base. In linea generale, un bambino sta meglio con i propri genitori che con qualunque altra figura. Le teorie psicologiche sull’attaccamento, a partire dagli studi di Bowlby e Ainsworth, attestano con chiarezza che la relazione primaria costituisce il nucleo di sicurezza emotiva attorno al quale si struttura il processo di sviluppo. Privare, ingiustamente, un minore delle figure genitoriali significa pregiudicare uno dei meccanismi regolativi più profondi della crescita psico-affettiva.
Tuttavia, è altrettanto incontrovertibile che la presenza dei genitori, da sola, non sia condizione sufficiente per garantire uno sviluppo armonico. Un bambino necessita di stimoli educativi progressivi, opportunità relazionali, supervisione sanitaria, contatti con i pari e con il mondo circostante. La psicologia evolutiva concorda sul fatto che la deprivazione sociale prolungata può determinare ritardi nelle competenze comunicative, difficoltà di autoregolazione emotiva, rigidità comportamentali e visione limitata delle dinamiche interpersonali. La socializzazione, infatti, non è un accessorio, ma una componente strutturale dei processi di crescita.
È necessario, dunque, distinguere due piani che nel dibattito pubblico vengono spesso confusi in modo improprio: la ricerca della felicità — concetto soggettivo, mutevole e non misurabile con criteri normativi — e la tutela giuridica dei minori. La legge non deve occuparsi della felicità dei bambini, la legge deve occuparsi di proteggere i minori da condizioni che possano mettere a rischio la loro integrità fisica, affettiva o cognitiva. La tutela, quindi, non definisce un modello ideale di infanzia, ma cerca di prevenire situazioni che comprometterebbero gravemente il percorso di sviluppo.
Il 4 dicembre, il Tribunale per i minorenni dell'Aquila, chiamato a esaminare la richiesta di ricongiungimento avanzata da Nathan Trevallion e Catherine Birmingham, ha scelto di riservarsi la decisione: il collegio giudicante, presieduto dal Roberto Ferrari, non ha emesso un provvedimento definitivo in sede di udienza.
Secondo quanto riferito dagli avvocati della coppia, la decisione scaturisce dalla necessità di ponderare nuovi elementi portati in aula: una soluzione abitativa temporanea accettata dai genitori, relazioni aggiornate dei servizi sociali che attestano il buono stato di salute e la socialità dei minori, e la presentazione di perizie utili a colmare le lacune che avevano motivato l’ordinanza di allontanamento. La riserva imposta dal tribunale rinvia dunque la scelta definitiva che, secondo le previsioni, potrebbe arrivare nei prossimi giorni, e comunque prima dell’udienza di merito, fissata in Corte d’Appello per il prossimo 16 dicembre.
Questo rinvio testimonia da un lato la cautela dei giudici nel valutare con rigore prove e condizioni, dall’altro la complessità del bilanciamento che il diritto minorile impone: da un lato la tutela concreta dei bambini, dall’altro la possibilità di riconoscere la legittimità di una richiesta di ricongiungimento, laddove le condizioni di sicurezza e di svago sociale possano essere garantite.
Il caso della famiglia nel bosco, al netto delle sue peculiarità, ci consegna dunque un nodo essenziale: comprendere fino a quale punto la libertà genitoriale possa spingersi prima che lo Stato sia chiamato a intervenire. È un equilibrio fragile, che richiede attenzione selettiva, rigore analitico e la capacità di non ridurre la complessità a slogan contrapposti. Solo distinguendo ciò che appartiene alla sfera dell’affetto da ciò che compete alle istituzioni potremo evitare che episodi di questo tipo si trasformino in terreno di scontro ideologico, anziché in occasione per affinare strumenti e criteri di tutela dei minori in una società sempre più articolata. Troppo sovente i bambini vengono messi al centro di slogan politici e campagne elettorali. E tutto ciò non può e non deve più accadere.