Sulla tragica morte di Pamela Genini, il silenzio prima di un colpo. Non di pistola, ma di coltello: ventiquattro volte
Una violenza inaudita che ha “soppresso” il respiro di una donna che lavorava, amava, rideva alla vita
24 coltellate. Pamela è stata uccisa. Pamela aveva paura. Pamela aveva ragione. Diceva: non è colpa mia, se io non so più amare. Ma non era amore, era controllo
C’era un telefono che squillava, una voce strozzata nel fiato: “se lo lascio mi uccide”. Poi un urlo, un tonfo, una linea che si spezza come un cuore. Nessuna canzone alla radio, solo quel silenzio denso, il silenzio prima di un colpo. Non di pistola come canta Dario Brunori, ma di coltello. Ventiquattro volte. Ventiquattro fendenti che hanno cancellato il respiro di una donna e lasciato un’eco che continuerà a vibrare, come una nota che non si spegne. Lei si chiamava Pamela Genini, aveva ventinove anni, un sogno addosso e un futuro in mano. Lavorava, amava, rideva, cercava di sopravvivere a un uomo che scambiava la paura per fedeltà, la gelosia per passione, la prigione per casa. Era tornata a vivere a Milano per ripartire, ma lui non gliel’ha permesso. Aveva duplicato le chiavi, deciso l’ora, scritto la fine. Quando è entrato, lei parlava al telefono con un amico, un ex che le voleva bene. “Teso ho paura, ha fatto doppione chiavi mie, è entrato, non so che fare, chiama la polizia”. Sono state le sue ultime parole. Poi, ventiquattro colpi. L’agonia. La porta che si richiude.
Lui — Gianluca Soncin, cinquantadue anni, biellese, un passato di truffe e aggressioni — era il suo compagno. L’aveva costretta a lasciare il lavoro, le amicizie, la libertà. Le aveva puntato una pistola al ventre, le aveva detto “se mi lasci ammazzo te e la tua famiglia”. Lei aveva avuto paura, ma anche il coraggio di dirlo. La mattina stessa aveva deciso di iscriversi all’università di Psicologia, di ricominciare da capo. Forse aveva persino sorriso. Ma il destino non è cieco: a volte è solo sordo. Nessuno ha sentito davvero le sue parole.
Quando gli agenti sono arrivati, lei respirava ancora. Poco. Male. Gli occhi aperti, il corpo trafitto, la voce che cercava aria. Morì pochi minuti dopo. Lui ha tentato di tagliarsi la gola, ma la vita non voluto lasciarlo andare: lo ha costretto a restare, per rispondere. Ora è in carcere, accusato di omicidio aggravato da crudeltà, stalking e premeditazione. Ma nessuna condanna, nessun tribunale restituirà il respiro che le è stato tolto.
Pamela aveva paura. Pamela aveva ragione. E noi? Noi avevamo il dovere di ascoltarla. Ma siamo diventati esperti nel girarci dall’altra parte, nel dire “sono fatti loro”, nel trasformare il dolore in statistica. Ogni volta che una donna muore così, una parte del Paese smette di respirare con lei. Ci raccontiamo che “non tutti gli uomini sono così”, che “lei avrebbe dovuto denunciare”, che “forse era fragile”. È la liturgia del dopo, il coro della colpa collettiva.
Eppure basterebbe poco, basterebbe ascoltare davvero, senza fretta, senza giudizio. Basterebbe credere alla paura di una donna come si crede a una sirena d’allarme. Ma non lo facciamo, non ancora. Perché ci spaventa l’idea che l’amore, quello che chiamiamo amore, possa avere il suono di un coltello che cade a terra.
Dario Brunori lo ha scritto e cantato: che l’amore, quando si ammala, diventa un colpo di pistola. Un pugno sulla schiena. Uno schiaffo per cena. Una melodia che scambia la dolcezza con il dominio, la carezza con la catena. “Forse l’ho amata troppo, e troppo non si può” — canta la voce, ma dietro quel troppo c’è già la condanna. Troppo amore che non è amore, troppa paura che diventa gabbia, troppa libertà che finisce in sangue. Pamela è morta in quella stessa confusione: perché lui non sapeva più distinguere il cielo dal possesso, l’affetto dall’ossessione.
E così, mentre lei cercava una via d’uscita, lui ha scambiato il suo no per un tradimento, la sua libertà per una sfida. E ha deciso di spegnere tutto. Come nella canzone l'assassino Prima l’ha uccisa, e dopo l’ha baciata. Pamela è morta due volte: la prima sotto i colpi del coltello, la seconda nel momento in cui il suo nome è stato inghiottito dal rumore. Ma noi abbiamo ancora una possibilità: quella di non lasciarla morire anche nel silenzio. Le chiavi che lui aveva duplicato non aprivano solo una porta: hanno aperto l’abisso di un Paese che non sa proteggere, che non sa educare, che non sa più distinguere l’amore dal dominio.
Non è colpa di un solo uomo, è colpa di un sistema intero. Della paura, della solitudine, del disinteresse. È colpa di chi minimizza, di chi tace, di chi pensa che “a me non potrebbe mai capitare”. Pamela aveva ventinove anni, e voleva solo vivere. Ora resta il suo nome, la sua voce, e quella frase che torna come un ritornello: Pamela aveva paura. Pamela aveva ragione. E noi, che restiamo, dobbiamo scegliere da che parte stare: dalla parte di chi spegne la musica o di chi, finalmente, decide di ascoltare fino in fondo quel colpo che non smette più di suonare.