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09/04/2025 ore 17.15
Opinioni

Tagli e promesse tradite. Lettera alla scuola umiliata

Oggi l’insegnante italiano, e con lui tutto il personale scolastico, lavora di più, con più responsabilità, più burocrazia, più studenti fragili, più solitudine. Eppure, riceve meno. Meno rispetto a ieri. Meno rispetto a chiunque in Europa

di Francesco Vilotta

C’è un’Italia che non fa notizia. Un’Italia che non urla, che non incendia le città, ma che viene consumata giorno dopo giorno, dall’arrogante sordità del potere. È l’Italia degli insegnanti, degli assistenti, dei collaboratori scolastici: quel popolo sommerso che ogni mattina tiene in piedi l’ultimo simulacro della civiltà. La scuola. Si parlava solo pochi mesi fa di riduzione del cuneo fiscale. Si promettevano aumenti, si annunciava il “rilancio della scuola”. Ma il rilancio non è mai arrivato. È arrivato il conto.

In questi primi mesi del 2025, e oggi, ad aprile, a questo popolo è stato inferto l’ennesimo schiaffo: stipendi decurtati, fino a 300 euro in meno rispetto ai mesi precedenti. Un taglio improvviso, subdolo, meschino.
Uno schiaffo che sa di vendetta. Non vendetta personale, ma sistemica.
Una vendetta culturale contro chi ancora educa, pensa, forma. Così lo stipendio netto si è assottigliato. Come una candela che si consuma nell' indifferenza e nel silenzio. Ma questa non è soltanto una mera questione contabile. È una questione politica. Etica. Esistenziale.

Avevano promesso la riduzione del cuneo fiscale. La chiamavano “cura”, la chiamavano “rilancio”. Ma non era altro che l’ennesima illusione impacchettata per le telecamere. Oggi, invece, la realtà è questa: la soppressione del bonus contributivo e la mancata applicazione del cuneo fiscale hanno prodotto un vuoto non solo economico, ma simbolico. È un tradimento. L’ennesimo.

Oggi l’insegnante italiano, e con lui tutto il personale scolastico, lavora di più, con più responsabilità, più burocrazia, più studenti fragili, più solitudine. Eppure, riceve meno. Meno rispetto a ieri. Meno rispetto a chiunque in Europa. Oggi l’insegnante italiano rappresenta un record. È il più povero, il più precario, il più mobile, il più silenzioso d’Europa. Tutto mentre la politica parla di “priorità”. Che parola oscena, quando è pronunciata da chi non ha morale, e da chi non entra in una scuola da una vita. E allora parliamo di Europa.

In Germania, un docente guadagna in media 65.000 euro lordi l’anno. In Francia, circa 45.000. In Spagna, 39.000. In Italia, un insegnante di ruolo guadagna spesso meno di 30.000 euro. Un precario, ancora meno. Eppure, è qui che si pretendono miracoli. È qui che si cambia tutto ogni sei mesi: modalità di concorso, abilitazioni, punteggi, regole. Tutto in corsa, senza logica, senza rispetto, senza memoria. È la scuola del capovolgimento. La scuola dell’instabilità elevata a sistema. È in questo contesto che la vita di migliaia di insegnanti diventa una lotta quotidiana.
In molti casi si lavora lontani da casa, si pagano affitti folli, si risparmia su tutto. Alla fine del mese, il bilancio se va bene è zero. E anche la speranza.

È in questo deserto che nasce il lavoro povero dell'intelligenza, lo scivolamento della classe media verso la povertà. Un paradosso crudele, più sei formato, più formi e meno vali. Siamo passati dai maestri della Repubblica ai lavoratori poveri della Nazione. Lo chiamano lavoro. Ma questo non è più lavoro. È umiliazione silenziosa. È sacrificio non riconosciuto. È martirio laico. E mentre si moltiplicano nuove figure e nuovi ruoli — spesso senza senso, spesso solo per giustificare qualche poltrona, o qualche finanziamento da spendere— chi ogni giorno tiene in piedi la scuola viene ignorato, sfiancato, derubato della propria dignità.
Perché vedete non è la scuola ad aver fallito. È lo Stato che l’ha abbandonata. E oggi con questo ennesimo taglio, l’ha colpita a sangue. 

Si pagano 5.000 euro al mese a consulenti che scrivono riforme inutili. Si nega l'elemosina di 83 euro a un insegnante che tiene in piedi il futuro. Questa non è politica, non è gestione. È infamia. Ma tutto questo non è un errore. Non è una svista. È un progetto preciso. Perché chi educa non è produttivo. Chi insegna a pensare è pericoloso. Chi apre menti, rompe catene.

La scuola, quella vera, non serve a produrre forza lavoro. Serve a produrre pensiero e libertà. E chi governa lo sa. Anche per questo si taglia. Si umilia. Si lascia morire. Il Governo, la politica e i sindacati tacciono e dimenticano. Ma noi non dimentichiamo. E non taceremo. Non per noi, ma per loro. Per quei ragazzi che guardano ogni giorno negli occhi i loro insegnanti. Per quei volti che cercano senso in un’aula troppo fredda, troppo affollata, troppo fragile. Perché tradire la scuola non è un errore. È un crimine contro il futuro. E quando, un giorno, chiederanno come sia stato possibile, dovremo avere la forza di rispondere: «Noi, almeno, abbiamo parlato».