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15/11/2025 ore 13.57
Opinioni

Tra riforma del Csm e separazione delle carriere, il nodo irrisolto resta la responsabilità civile dei magistrati

Una riforma storica, frutto del referendum e di anni di dibattiti, per garantire equilibrio e fiducia nel sistema. Ma non basta, ecco perché

di Antonia Postorivo

Il Senato il 30 ottobre 2025, con 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astensioni ha dato il via libera alla riforma sulla separazione delle carriere e la riforma del Csm.

Il dibattito sulla giustizia italiana continua a occupare il centro della scena, e non potrebbe essere altrimenti. Da anni si discute della necessità di una riorganizzazione profonda del sistema giudiziario: maggiore efficienza, maggiore trasparenza e, soprattutto, maggiore equilibrio tra i poteri.

In questo quadro, due temi emergono con forza: la separazione delle carriere dei magistrati e la responsabilità civile per gli errori giudiziari. La riforma del CSM è una conseguenza naturale.

Nella legge sulla separazione delle carriere, la vera novità è quella dei due CSM distinti. La riforma quella che cambia davvero l’assetto della giustizia italiana è: la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura, uno per i giudici e uno per i PM.

Per anni la separazione delle carriere è stata discussa come principio, ma senza questa innovazione sarebbe rimasta incompleta. Dividere solo le funzioni non basta se poi chi governa le carriere è lo stesso organo.

La novità introdotta, invece, spezza proprio quel nodo: l’autogoverno non sarà più unitario, ma suddiviso in due percorsi autonomi.

Cosa cambia con questa novità?

Fine della “giustizia domestica”.

Giudici e PM non saranno più gestiti, valutati e disciplinati dalla stessa casa, stessa organo.

Due organi di autogoverno separati: CSM (Consiglio Nazionale Magistrati) dei giudici, CSM (Consiglio Nazionale Magistrati) dei pubblici ministeri.

Percorsi di carriera realmente distinti, con regole, valutazioni e controlli separati.

Riduzione del correntismo interno, perché non ci saranno più liste e influenze che si muovono trasversalmente tra ruoli diversi.

Maggiore equilibrio nel processo penale, in cui chi accusa e chi giudica nasce, cresce e viene valutato in strutture del tutto autonome.

Perché è la novità decisiva?

Perché è l’unico modo per rendere la separazione delle carriere effettiva e non solo teorica.

Senza due CSM, tutto resterebbe come prima: stessi controllori, stesse dinamiche interne, stesso sistema chiuso.

Non più” giudice che giudica giudice” come disse il giornalista Giuliano Ferrara nel corso di una delle tante nostre udienze dove io ero il suo Avvocato difensore, lui giornalista, direttore responsabile, querelato dall’ennesimo magistrato, ci trovavamo in aula sentendoci a volte soli davanti a giudici in estrema confidenza tra loro.

Con due CSM, invece, con la riforma diventa reale: non più una magistratura “familiare”, autoreferenziale, ma due funzioni separare, due responsabilità distinte, due percorsi indipendenti.

Da una parte, c’era la necessità di separare le carriere dei magistrati: togliere, cioè, la sovrapposizione tra chi istruisce, indaga e accusa (i pubblici ministeri) e chi giudica (i giudici).

La separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici è una richiesta più che legittima. In molti sistemi giuridici avanzati, la distinzione è già una realtà: significa costruire due percorsi professionali distinti, con criteri di nomina, promozione e valutazione separati. I vantaggi sono molteplici:

Indipendenza funzionale: separando i ruoli, si riducono le potenziali interferenze e conflitti di interesse. Un magistrato che ha sempre la prospettiva dell’accusa può essere influenzato diversamente rispetto a uno che ha sempre il compito di giudicare.

Maggiore specializzazione: i pubblici ministeri possono concentrarsi esclusivamente sulle attività investigative, mentre i giudici si dedicano alla decisione finale basata su prove e diritto. Questo porta a magistrati più esperti e più preparati in ciascuna funzione.

Controllo democratico e trasparenza: con carriere separate, diventa più facile attribuire responsabilità specifiche per eventuali abusi o inefficienze, perché il ruolo di ciascuno è chiaramente definito.

Tuttavia, se da un lato questa separazione è sicuramente un passo in avanti, dall’altro non basta a garantire una giustizia pienamente equa e responsabile.

Il nocciolo della questione risiede altrove: l’altra riforma più urgente è quella della responsabilità civile dei magistrati. In parole semplici, i magistrati devono rispondere in modo concreto — anche economicamente — per i danni causati dai loro errori, dalle loro omissioni o da comportamenti negligenti o imprudenti.

Una riforma fondamentale, ma non sufficiente.

Gli attenti conoscitori del sistema giudiziario in Italia ritengono che la vera riforma necessaria non sia solo quella organizzativa, ma una rivoluzione nella responsabilità dei magistrati: la responsabilità civile per gli errori giudiziari.

Perché è così importante?

Ecco validi motivi per fare questa riforma sulla responsabilità civile dei magistrati che commettono errori giudiziari:

Tutela dei cittadini

Quando una persona subisce un’ingiustizia — ad esempio, viene condannata ingiustamente o rimane coinvolta in un procedimento lento e dannoso — non basta che lo Stato paghi un risarcimento: serve che chi ha sbagliato risponda di persona. Questo non significa trasformare il magistrato in un imprenditore, ma garantire che le vittime abbiano un rimedio reale e una forma di responsabilità diretta.

Previene gli abusi

Senza responsabilità, non esiste un incentivo forte per evitare errori gravi, per seguire le procedure con rigore o per mantenere elevati standard di professionalità. Sapere che ci si può rendere personalmente responsabili produce un potente effetto deterrente contro la superficialità, l’arroganza istituzionale o il maneggiamento dei processi.

Aumenta la fiducia nella magistratura

Molti cittadini percepiscono la magistratura come un potere intoccabile, una macchina burocratica lontana. Dare ai magistrati una responsabilità reale significa avvicinarli ai cittadini: non sono semplici figure autorità anonime, ma professionisti che rispondono del loro operato. Questo rafforza la legittimità della giustizia agli occhi della società.

Se da un lato la separazione delle carriere rappresenta una riforma strutturale importante, dall’altro la responsabilità civile costituisce la vera svolta culturale.

Perché?

Perché nessun potere dello Stato deve essere privo di responsabilità.

Quando un errore giudiziario rovina una vita, quando un’indagine è condotta con superficialità o una decisione è presa con colpevole negligenza, non può essere solo lo Stato — quindi i contribuenti — a rispondere. Deve rispondere anche chi ha sbagliato.

La responsabilità civile, ripetiamolo ancora: tutela i cittadini riconoscendo loro un diritto a un vero risarcimento, innalza il livello di professionalità perché sapere di rispondere dei propri errori aumenta la cura e la prudenza, riduce il rischio di abusi o di atteggiamenti autoreferenziali. afforza la fiducia nella magistratura, che non viene indebolita, ma resa più credibile e trasparente.

Gli italiani hanno parlato. Gli italiani l’hanno capito ed infatti al referendum hanno votato SÌ, affermando un principio essenziale di democrazia moderna.

Il voto favorevole degli italiani non è un atto di sfiducia nella magistratura:

è un atto di maturità civile.

Nel 1987 gli italiani furono chiamati a votare su un referendum abrogativo che riguardava la legge 117/1988 (che sarebbe stata approvata dopo), ma soprattutto il sistema di responsabilità civile dei magistrati. L’iniziativa nacque dopo il famoso caso Tortora, che aveva scosso profondamente l’opinione pubblica.

Cosa chiedeva il referendum?

Il quesito proponeva di ampliare la responsabilità civile dei magistrati, rendendoli più direttamente responsabili per gli errori commessi nell’esercizio delle loro funzioni.

Il referendum fu un successo schiacciante: gli italiani votarono SÌ in massa. Circa l’80% si espresse a favore dell’aumento della responsabilità dei magistrati. L’affluenza superò il quorum (oltre il 65%), quindi il referendum fu valido e approvato.

Cosa è cambiato dopo?

Il Parlamento, pur rispettando formalmente il risultato, approvò nel 1988 una legge (la cosiddetta Legge Vassalli) che rese possibile la responsabilità civile, ma in maniera molto limitata:

il cittadino può citare lo Stato, non il magistrato direttamente; sarà poi lo Stato, eventualmente, a rivalersi sul magistrato (evento rarissimo); i casi in cui il magistrato può essere ritenuto responsabile sono rimasti molto ristretti.

Per questo molti ritengono che il risultato del referendum non sia mai stato pienamente attuato.

La volontà referendaria degli italiani sulla responsabilità civile fu applicata ma in maniera molto limitata perché non ebbe la politica il coraggio, come spesso accade, di fare le riforme in tema di giustizia senza avere paura della magistratura.

Dire SÌ alla responsabilità dei magistrati significa riconoscere che ogni potere — proprio perché è potere — deve essere bilanciato da controlli e da doveri.

È una scelta che avvicina l’Italia ai sistemi più evoluti d’Europa, dove l’indipendenza della magistratura convive con meccanismi seri ed efficaci di responsabilità.

Una riforma per rendere lo Stato più giusto

Gli italiani hanno mostrato di volerla con forza, votando SÌ. Ora la politica ha il dovere di trasformare quel voto in una riforma concreta, completa e coraggiosa.

Solo così potremo avere una giustizia che unisce indipendenza, equilibrio e responsabilità: i tre pilastri di uno Stato realmente libero e realmente giusto.