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07/04/2025 ore 19.30
Politica

Da “disabilità” a “crisi climatica”: Trump fa guerra alle parole, ma non è una novità politica

Linguaggio e potere: la manipolazione che limita la libertà di espressione e informazione

di Mario Saccomanno
Il presidente americano Donald Trump (Ansa)

«Chi parla male, pensa male e vive male. Le parole sono importanti». A pronunciare enfaticamente queste due frasi dichiarative diventate celebri è Nanni Moretti nel ruolo di Michele Apicella nel film Palombella Rossa. Si tratta di affermazioni che ricordano come il linguaggio non sia mai neutrale. In effetti, è uno degli strumenti più efficaci attraverso cui gli uomini danno forma al pensiero, trasmettono idee e influenzano le scelte e gli orientamenti dei loro simili.

Ogni idioma contribuisce a costruire una narrativa pubblica. Nel farlo, restringere o eliminare certe parole limita la libertà di espressione della scienza e del pensiero. Dunque, non solo si possono precludere informazioni, ma quelle divulgate risultano spesso incomplete.
Così, se il linguaggio viene esaminato e impoverito eliminando alcune parole, anche il pensiero ne risente: è questa la logica della censura che agisce proprio per manipolare l’opinione pubblica diminuendo le differenze delle informazioni disponibili.

Per quanto detto, non appare difficile comprendere come politica e parole abbiano sempre avuto un legame ben solido e complesso. Del resto, è innegabile che il linguaggio possa essere un ponte o un’arma, che possa unire o dividere, includere o escludere. La politica, che è potere e influenza, ne fa uno strumento strategico per orientare il dibattito e controllare le masse.

Gli esempi che potrebbero essere addotti abbondano. Basti pensare alla Cina e alle limitazioni all’accesso delle informazioni relative alle vicende riguardanti gli eventi di Piazza Tienanmen del 1989, oppure all’Iran dove le proteste nei riguardi del sistema governativo prevedono puntualmente una forte censura anche argomentativa, per esempio con la chiusura o la limitazione dei social media e di siti di informazione.

Il controllo linguistico può essere anche più sottile. Nel regime staliniano, la “lingua di legno” – un linguaggio privo di autenticità e sfumature – era usato per spazzar via ogni pensiero critico. Invece, la Germania nazista trasformò le parole in strumenti di oppressione coi quali disumanizzare interi gruppi sociali. Termini quali untermensch (“subumano”) venivano usati per etichettare e degradare chi era considerato inferiore.

Gli esempi riportati fanno capire come il controllo del linguaggio sia a tutti gli effetti una pratica universale e trasversale che non può essere relegata a determinati Paesi o a periodi storici.

Così, anche la politica americana promanata da Donald Trump, sin dal suo primo mandato, ha fatto “guerra alle parole”. Di recente è emersa la notizia che alcuni termini sono stati eliminati oppure il loro utilizzo è stato fortemente sconsigliato nei documenti ufficiali. Facendo fede a quanto riferito dal New York Times, fra i numerosi vocaboli proibiti figurano “antiracist”, “clean energy”, “climate crisis”, “disability”, “disparity”, “gender diversity”. “minority” e “pollution” (cioè: “antirazzista”, “energia pulita”, “crisi climatica”, “disabilità”, “disparità”, “diversità di genere”, “minoranza” e “inquinamento”).

Questa revisione linguistica, come dimostrano i termini riportati, attraversa con precisione temi di grande sensibilità. Innegabilmente, si riscontra una forma di censura climatica volta a minimizzare le voci che denunciano la gravità della situazione attuale e l’urgenza di questioni cruciali. Inoltre, la politica censoria ha colpito in particolare le comunità marginalizzate, alimentando una “cancel culture” che tende a screditare e, di fatto, eliminare il linguaggio legato all’integrazione sociale e alla diversità di genere.

Il culmine di questo aspetto della politica trumpiana ha portato anche a paradossi. Si pensi a “Enola Gay”, il nome del bombardiere pilotato da Paul Tibbets, il colonnello che il 6 agosto 1945 sganciò la bomba su Hiroshima. Dato che il termine “gay” rientra fra quelli il cui uso è controverso per l’amministrazione americana, alcune foto sono state segnalate dal Dipartimento della Difesa – in inglese United States Department of Defense (DOD) – per una possibile rimozione.

Le restrizioni riguardano anche le ricerche scientifiche. Difatti, si è assistito all’inasprimento delle verifiche sui contenuti trattati negli articoli pubblicati dal Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) che, ovviamente, hanno una gamma di argomenti molto ampia che spazia dalle malattie infettive, agli inquinanti ambientali o alla salute mentale.

Non c’è dubbio che gli studi scientifici siano cruciali quando si parla di emergenze sanitarie e di educazione. Censurare significa inevitabilmente poter generare ripercussioni decisive sulla salute pubblica. Dunque, non sorprende che diversi redattori di riviste scientifiche abbiano manifestato una profonda preoccupazione per quanto è accaduto. La loro posizione ha evidenziato quanto sia essenziale tutelare l’integrità della scienza, evitando interferenze politiche.

Queste scelte linguistiche sono strettamente legate alle strategie governative, poiché il linguaggio riflette sempre un preciso orientamento politico. Ecco perché, per rimanere ancorati al Cdc, si è assistito alla chiusura di laboratori specifici, come quello dedicato alle malattie sessualmente trasmissibili, oltre a numerosi licenziamenti mirati, che hanno colpito settori cruciali come la prevenzione della violenza e la sicurezza sul lavoro.
Inoltre, la nomina di Susan Monarez ha interrotto una tradizione consolidata, poiché per oltre cinquant’anni la direzione del Cdc era stata affidata esclusivamente a un medico.

Stessa cosa per gli ambiti messi in risalto in precedenza: la politica negazionista climatica trumpiana ha portato al ritiro dall’Accordo di Parigi, alla revoca di quattro miliardi di dollari di finanziamenti previsti per il Green Climate Fund (GCF) e alla promozione di determinati progetti che mirano a espandere la produzione di petrolio e gas.

Analogamente, l’impatto sulle politiche di inclusione e sui diritti delle comunità LGBTQ+ traspare dagli ordini esecutivi coi quali Trump ha limitato l’uso del genere neutro in documenti federali oppure dal divieto per le persone transgender di entrare nelle forze armate. Inoltre, anche qui, diversi fondi destinati a iniziative di supporto della comunità LGBTQ+ sono stati ridotti.

Dunque, per quanto detto, si è notata la forza e l’incidenza che hanno le parole e il bisogno di farne buon uso. Di più: il loro utilizzo non è scontato e rappresenta a tutti gli effetti una scelta politica. Legando questo aspetto ai confini nazionali, si pensi a una delle prime azioni di Giorgia Meloni che ha precisato subitaneamente di voler essere chiamata “il presidente” per privilegiare la funzione che ricopre rispetto al genere della persona che la esercita. Questa posizione ideologica è stata vista da molti come un’occasione persa per aggiornare e rendere più moderno il linguaggio istituzionale.

Sia chiaro: le parole, quasi come macigni, hanno la capacità di resistere agli urti dati da chi detiene il potere. Non solo: sono semi piantati nella memoria collettiva capaci di promuovere trasformazioni profonde. Quindi, in un mondo in cui il linguaggio appare sempre più manipolato col fine di controllare, censurare o dividere, appare decisivo cogliere il potere delle parole e utilizzarlo per costruire un futuro che possa essere incentrato sulla consapevolezza, sull’inclusione e sulla verità.