Da Genova a Palazzo Chigi? L’ascesa lampo di Silvia Salis, la sindaca “martellista” che piace a Renzi e inquieta Meloni
Carriera sportiva, ambizione feroce, talento mediatico e un claim che riecheggia quello della presidente del Consiglio. Piace al centro e alla sinistra, divide i suoi avversari e scatena i retroscena: la sfida è appena iniziata
Gli incubi di Giorgia Meloni ed Elly Schlein, pur su fronti opposti, girano intorno alla stessa ossessione: Silvia Salis. La nuova sindaca di Genova, eletta a maggio con una campagna in stile bulldozer, oggi compie quarant’anni e si trova già etichettata come la variabile impazzita del centrosinistra. Troppo fresca per non essere guardata, troppo mediatica per non essere temuta. E soprattutto con un claim che brucia le orecchie di Palazzo Chigi: «Sono madre, sono cattolica, sono moglie».
Una frase che rimbalza inevitabilmente al tormentone melonian-rap del 2019: «Sono una donna, sono una madre, sono cristiana». Allora era uno slogan da palco, oggi è un avvertimento politico. La Salis lo ripete sorridendo, ma sa bene che ogni parola è calibrata: madre di Eugenio, due anni, moglie del regista Fausto Brizzi, cattolica dichiarata ma senza complessi. Una mossa che piace al centro cattolico, non disturba il mondo delle imprese e, insieme, non aliena la sinistra più laica che apprezza la sua agenda sociale.
A Genova, la fascia tricolore l’ha strappata al centrodestra con una campagna pragmatica: porte a porte, messaggi chiari, nessuna concessione all’astratto. Il risultato è stato netto, trasformando la città in laboratorio politico. E ora c’è chi sogna di ripetere il modello a livello nazionale. Matteo Renzi, in particolare, che per la “sua Silvia” stravede: la vede già in marcia sul suo stesso percorso, da sindaca a premier, bruciando tappe e rivali. Dario Franceschini, regista silenzioso di questo “nuovo centro” riformista, annuisce ma frena: «Prima facciamole fare un po’ la sindaca».
Salis, ex atleta olimpica con dieci titoli italiani nel martello, ha costruito la sua immagine sulla determinazione. «Sono la dimostrazione vivente che lo sport è il primo ascensore sociale del Paese», dice lei. Cresciuta a Sturla, figlia di un militante comunista custode di impianti sportivi e di una madre impiegata, ha imparato presto a non aspettare regali. Una volta rimasta a secco in macchina, il padre le consegnò una tanica di benzina con la frase diventata motto: «Ricordati che sei figlia di un operaio, non puoi permetterti di essere imbecille».
La politica l’ha trovata pronta. Dopo il ritiro dall’agonismo, Giovanni Malagò la volle vicepresidente vicario del Coni. Da lì ha cominciato a orbitare attorno alle istituzioni, abituandosi ai riflettori. La naturalezza con cui affronta telecamere e palchi è oggi la sua arma segreta. Frasi brevi, concetti scolpiti, un sorriso spavaldo che conquista. Non sbaglia quasi nulla: capelli sciolti, eleganza semplice, niente tailleur di potere né armocromie studiate.
Non stupisce che la Schlein la osservi con apprensione. La leader dem ha appena cominciato a sciogliersi in tv, ma il confronto con la disinvoltura della collega genovese non le giova. Meloni, invece, la riconosce come avversaria naturale: stessa capacità di slogan, stesso gusto per la sfida frontale, stessa energia competitiva. Solo che Salis ha la carta della novità.
Gli episodi non mancano: a Sant’Anna di Stazzema ha parlato del fascismo come “mutaforma”, a Reggio Emilia ha evocato la sicurezza come tema da sinistra, al Politeama ha accolto Saviano, al Pride ha sfilato, in Comune ha istituito una giunta a maggioranza femminile. Ha persino autorizzato la registrazione di undici figli di coppie omogenitoriali, mostrando di saper dosare progressismo e pragmatismo. E intanto si prepara ad aprire la prossima Leopolda.
Alle 6.30 del mattino corre dieci chilometri sul tapis roulant leggendo i giornali. Poi agenda, incontri, eventi. La sua routine è carburante per un’ambizione che non nasconde: «In politica conta solo arrivare primi. La medaglia d’argento non esiste». Non a caso, quando le chiesero l’accusa più frequente, rispose: «Che sono una stronza».
Il resto lo fa il contesto. Un centrosinistra in cerca di leader competitivi, un Pd logorato, un M5S in calo, un centro renziano in costruzione. Salis si muove tra gli spazi vuoti: colpi a sinistra, strizzate d’occhio al centro, un linguaggio che cattura anche fuori dai confini di partito.
La domanda è inevitabile: mira davvero a Palazzo Chigi? Forse no, non subito. Ma il tracciato è chiaro: primarie di coalizione, leadership condivisa, scenario da partita lunga. Se la legge elettorale dovesse imporre un nome prima del voto, lei ci sarà. Con lo stesso piglio di quando scendeva in pedana con il martello: forza, determinazione, zero paura.
E allora sì: Meloni e Schlein hanno ragione a preoccuparsi. Perché Silvia Salis non è un underdog. È già arrivata.