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17/06/2025 ore 06.15
Politica

Il Pci non era solo un partito: educava, proteggeva, formava cittadini. E la sua assenza pesa

In un tempo in cui la politica si riduce a slogan e alla conta dei follower, manca l'infrastruttura sociale che il Partito comunista garantiva: cultura, mutualismo e cittadinanza attiva. Un'eredità che oggi serve più che mai

di Luca Falbo
La svolta della Bolognina (Wikipedia)

C’è stato un tempo in cui un partito non si limitava a competere alle elezioni, ma formava coscienze, costruiva comunità, organizzava cultura, tutela sociale e visione del mondo. Quel partito era il Partito Comunista Italiano. Oggi, in una politica sempre più liquida e disintermediata, la sua assenza pesa più di quanto si ammetta pubblicamente. Manca non solo come soggetto politico, ma come infrastruttura culturale, educativa, sociale. In un’epoca in cui il consenso si misura in like e reazioni emotive, il PCI rappresentava una scuola permanente di cittadinanza.

Le origini: una sfida rivoluzionaria all’Occidente

Nato nel 1921 dalla scissione socialista di Livorno, il PCI fu figlio della rivoluzione russa e della grande frattura ideologica del Novecento. Sopravvisse al fascismo, alla clandestinità e alla guerra, e contribuì in modo decisivo alla Resistenza, guadagnandosi il ruolo di forza costituente nella Repubblica italiana. Durante la Guerra Fredda, fu al tempo stesso partito d’opposizione e organizzazione di massa, capace di radicarsi nei territori, nei luoghi di lavoro, nelle periferie culturali. Costruiva biblioteche, organizzava corsi serali, promuoveva il teatro e il cinema nelle periferie. Era, a tutti gli effetti, un attore educativo.

Il dopoguerra e il doppio legame con Mosca

Nel 1948, con la guerra fredda ormai in atto, il PCI divenne ufficialmente il partito dell’opposizione permanente. Legato all’Unione Sovietica non solo ideologicamente, ma anche logisticamente (con finanziamenti e indirizzi politici), il partito di Palmiro Togliatti si muoveva su un crinale difficile: da un lato, voleva essere partito di massa, radicato nella democrazia italiana; dall’altro, non poteva rinnegare l’alleanza strategica con Mosca.

Eppure, proprio Togliatti fu protagonista di un momento simbolico di unità nazionale. Nel 1948, dopo l’attentato che lo ferì gravemente, fu lui a chiedere ai suoi compagni di evitare la rivolta, salvando di fatto la fragile democrazia repubblicana. Era il primo segnale che il PCI italiano stava prendendo una strada diversa rispetto agli altri partiti comunisti dell’Est.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, pur mantenendo una linea marxista-leninista, il partito sviluppò una prassi di opposizione democratica: forte nei sindacati, nelle regioni rosse, nei Comuni e nelle Province. Ma restava fuori da ogni alleanza di governo.

Gli anni di piombo e il “compromesso storico”

Gli anni Settanta furono il banco di prova definitivo. La crisi economica, il terrorismo, le tensioni internazionali misero in discussione gli equilibri della prima Repubblica. Il segretario Enrico Berlinguer, dopo il colpo di Stato in Cile del 1973, comprese che la sinistra non avrebbe mai governato senza un’alleanza con le forze cattoliche: nacque così l’idea del compromesso storico con la Democrazia Cristiana. Un’intesa mai pienamente realizzata, ma che segnò un cambiamento epocale. Quando nel 1978 fu rapito e poi ucciso Aldo Moro, Berlinguer fu tra i più convinti nel sostenere la linea della fermezza: un altro passaggio in cui i comunisti italiani si schierarono a difesa dello Stato.

Ma fu anche il periodo dello strappo da Mosca: dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan e il raffreddamento dei rapporti con il blocco orientale, il PCI di Berlinguer cominciò a definirsi comunista italiano, autonomo, democratico, eurocomunista. Un comunismo non più sovietico, ma riformista.

Nel 1976, il PCI ottenne il 34,4% dei voti: era il più grande partito comunista d’Occidente. Ma la sua peculiarità non era solo nei numeri. Il PCI aveva un'identità profonda, unitaria, plurale: dal gramscismo al togliattismo, dal compromesso storico all'eurocomunismo di Berlinguer. Era un partito che investiva nella formazione politica, nella lettura critica della realtà, nella partecipazione attiva dei cittadini. Aveva una stampa (l’Unità), un sistema cooperativo, un radicamento mutualistico e culturale che sopperiva anche alle lacune dello Stato sociale. E aveva una sua estetica, una ritualità collettiva fatta di feste dell’Unità, dibattiti, sezioni aperte tutti i giorni, simboli riconoscibili e uno stile comunicativo rigoroso.

Una delle curiosità meno note riguarda la struttura del partito: ogni sezione aveva un responsabile della cultura, uno dell’educazione, uno dei rapporti con il sindacato, uno per le attività delle donne. Un modello di "capillarità intelligente" oggi sconosciuto. Nel 1983, una ricerca interna stimava che oltre il 60% degli iscritti del PCI aveva letto almeno tre libri politici in un anno. Oggi, questo livello di alfabetizzazione politica è impensabile. In molte realtà, le sezioni svolgevano anche funzioni mutualistiche: prestiti tra compagni, doposcuola gratuiti per i figli degli operai, aiuti per chi perdeva il lavoro.

La fine del PCI e la nascita della galassia progressista

La morte improvvisa di Berlinguer nel 1984, durante un comizio a Padova, chiuse un’epoca. Dopo di lui, il partito visse una lunga agonia. Le rivoluzioni del 1989, la caduta del Muro di Berlino e la crisi dell’URSS resero evidente l’insostenibilità del vecchio impianto ideologico.

La dissoluzione del PCI tra il 1989 e il 1991, con la svolta della Bolognina, fu un atto doloroso ma inevitabile in un contesto geopolitico radicalmente mutato. Nasceva il PDS, poi i DS, infine il PD. Ma a ogni mutazione si perdeva qualcosa: linguaggio, radicamento, credibilità sociale. Il PCI era un partito ideologico nel senso più nobile del termine: aveva una lettura del mondo, e non solo una lista di proposte programmatiche. Il cambiamento fu anche generazionale: scomparve la figura del militante come intellettuale diffuso e venne sostituita da quella del funzionario politico o del comunicatore.

Oggi, in un Paese frammentato, diseguale, dove la rappresentanza dei ceti popolari è evaporata e la politica si consuma nei talk-show o sui social, l’eredità del PCI appare più che mai attuale. Non per tornare al Novecento, ma per ritrovare un approccio più complesso, umano e strutturato al governo della cosa pubblica. Perché una democrazia senza pensiero, senza luoghi di confronto reale, senza militanza diffusa, è una democrazia più fragile. La mancanza di mediazione sociale ha aperto la strada al populismo, alla disillusione, all’astensione crescente.

La politica non può limitarsi a gestire il presente: deve offrire visione, futuro, senso. Il PCI, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, ci ricorda che esiste un modo diverso di pensare la società. Un modo che metteva al centro il lavoro, la cultura, la giustizia sociale. In un tempo in cui anche le parole sembrano svuotate, ricordare il PCI non è nostalgia: è necessità. È un invito a ripensare la politica come progetto collettivo, non solo come somma di interessi individuali. È una lezione da rileggere, non per replicare un modello, ma per ricostruire un orizzonte.