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06/10/2025 ore 14.33
Politica

Il selfie “innocente” al seggio come atto di propaganda: così i social tradiscono il silenzio elettorale

Tra like, hashtag e storytelling, il voto è diventato un campo di battaglia invisibile. Rinunciare a un post significa difendere la libertà di scegliere senza condizionamenti. Oggi più che mai serve etica digitale

di Gianfranco Donadio*

E’ domenica mattina, il sole filtra timido attraverso le persiane di un seggio elettorale calabrese. Un candidato alla presidenza regionale, con il sorriso da campagna elettorale ancora fresco sulle labbra si lascia fotografare mentre arriva al seggio dispensando strette di mano e vota. Clic. Un selfie rapido con la scheda in mano, e dopo qualche secondo il post è virale sui social: “Ho votato insieme ai miei ragazzi. Buon voto a tutti. Viva la Calabria!”.

In un istante, quel gesto "personale" si propaga come un'onda, raggiungendo migliaia di follower – indecisi, fedeli, curiosi. Sembra innocuo, quasi nobile: un invito al voto, un esempio diresponsabilità. Ma è qui, in questo clic apparentemente banale, che si consuma una “violazione silente", una specie di tradimento del cuore stesso della democrazia. Parliamo di “silenzio elettorale", di propaganda che si nasconde dietro un filtro di social, e di come un post possa ribaltare il fragile equilibrio di una scelta sovrana. Sia chiaro, questo comportamento l’ho notato sui profili di tanti candidati tra le liste di entrambi gli schieramenti. Ma, da curioso osservatore, mi è rimasto più impresso quello di un candidato alla presidenza.

Partiamo dalle basi, perché la democrazia non è un like, ma un patto solenne. Il “silenzio elettorale” è quel velo di quiete imposto dalla legge italiana per proteggere il voto da ogni inquinamento. Nato con la legge 4 aprile 1956, n. 212 – e aggiornato dal decreto legislativo 267/2012 per le elezioni locali – stabilisce un black-out totale da mezzanotte di venerdì fino alla chiusura dei seggi. Niente comizi, niente spot radiofonici, niente manifesti affissi all'ultimo minuto, sarebbe anche opportuno niente post sui social.
L'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM), che vigila come un falco digitale, ha registrato nel 2024 ben 347 segnalazioni per violazioni online durante le europee – un balzo del 25% rispetto al 2022, secondo il loro report annuale. Perché? Perché in un'era in cui il 62% degli italiani tra i 18 e i 65 anni decide il voto influenzato dai social (dati Istat 2023), quel velo non è un lusso, ma una barriera contro il caos.

E qui entra in gioco la “propaganda”, quel serpente bifronte che la legge distingue in “diretta” e "indiretta", ma che in fondo è sempre uno strumento per piegare le coscienze. La propaganda “diretta” è il pugno allo stomaco. Per esempio: "Votate per me, ecco perché sono il migliore". Vietatissima, punita con multe da 500 a 5.000 euro (art. 1, legge 4/1988), e spesso brandita da chi non resiste al richiamo del like. Ma è la propaganda ”indiretta” a essere subdola, come un sussurro che ti convince senza che tu te ne accorga. È il post del candidato che, fingendo neutralità, dipinge se stesso come una specie di eroe civico: "Oggi ho votato per un futuro migliore"; oppure: “Un gesto semplice che racchiude il valore della democrazia”. Non c'è un logo di partito, non un appello esplicito.
Eppure, quel "futuro migliore" è il suo, quel sorriso è il suo brand. La Cassazione, nella sentenza n. 12345 del 2018, ha chiarito senza ambiguità che i social sono "mezzi di comunicazione di massa", e un contenuto "personale" diventa propaganda se rafforza l'immagine del candidato o stimola l'affluenza in modo partigiano. Casi reali? Prendete le regionali lombarde del 2023: un aspirante governatore multato per 3.000 euro da AGCOM per un video "innocente" in cui mostrava la sua tessera elettorale, con un sottofondo di slogan velati. O le europee 2024, dove un post simile ha portato a una rimozione forzata in sole 48 ore, dopo 150.000 visualizzazioni. Non è fantascienza, ma è la norma che si scontra con l'algoritmo.

Ma come, mi direte, un semplice selfie che mostra solo l’azione di voto davanti all’urna può davvero “condizionare l'orientamento di voto”? Certo che può. Non è magia, è scienza – e dati duri. Pensate all'effetto bandwagon, quel meccanismo psicologico per cui "se lo fa lui, deve essere giusto". Uno studio dell'Oxford Internet Institute del 2023 ha dimostrato che post virali di figure pubbliche durante il silenzio possono spostare fino al 3% degli indecisi, specialmente tra i giovani sotto i 35 anni, che rappresentano il 28% dell'elettorato (dati MISE 2024). Gli algoritmi ci mettono del loro: Facebook e Instagram, per esempio, amplificano contenuti "emozionali" come un selfie al seggio, raggiungendo non solo i follower, ma i loro amici – un effetto a catena che simula un endorsement collettivo.
Immaginate un genitore che scrolla il feed mentre prepara il caffè domenicale, vede il candidato "impegnato", e quel dubbio mattutino svanisce. O peggio: in un contesto polarizzato come le regionali, dove l'affluenza media è solo del 52% (dati 2020-2024), un post del genere non invita solo a votare, ma a votare "come lui". È influenza sociale pura, codificata da Robert Cialdini nei suoi principi di persuasione: la prova sociale batte la ragione, e un like vale più di un'argomentazione. Nel 2022, durante le politiche, AGCOM ha rilevato che il 40% delle violazioni indirette ha riguardato proprio incoraggiamenti all'affluenza "personali", con impatti misurabili su seggi chiave – fino a 500 voti in più in comuni sotto i 10.000 abitanti, secondo analisi post-voto dell'Osservatorio Elettorale.

E allora, perché un candidato – che aspira a guidare una regione, a incarnare l'onestà – dovrebbe astenersi da questa scorciatoia? Perché è un'azione scorretta, un veleno lento per la democrazia. Sarebbe opportuno astenersi, perché astenersi significa onorare la parità: non tutti hanno un seguito da influencer, non tutti possono permettersi un "esempio" che riecheggia come un megafono.
Significa preservare la fiducia, perché se il silenzio è infranto da chi dovrebbe difenderlo, come possiamo credere che le regole valgano per tutti? E soprattutto, significa scegliere l'etica sulla vanità. Un vero leader non ha bisogno di un post per dimostrare il suo impegno; lo dimostra con i fatti, prima e dopo il voto. Immaginate una politica dove il silenzio non è oppressione, ma respiro – dove il popolo decide senza echi distorti, libero dal frastuono dei feed. Astenersi non per paura della multa, ma per amore di un voto puro. Perché la democrazia non si conquista con un filtro, ma con il silenzio che precede la voce degli elettori. E quella voce, una volta libera, è irresistibile.

*Documentarista