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06/10/2025 ore 23.06
Politica

La vittoria annunciata di Roberto Occhiuto nella Calabria delle urne vuote che si lamenta e non partecipa

Un successo scontato, una Calabria immobile. Dietro i brindisi e le parole del trionfo, la vera vincitrice resta l’astensione. Una regione che non vota, non partecipa e non sogna. E che continua a riconoscersi solo nel proprio lamento
 

di Francesco Vilotta
Soverato (CZ), Magna Graecia Film Festival - ottava serata. Nella foto: Roberto Occhiuto


Nulla di più scontato: Roberto Occhiuto è stato rieletto presidente della Calabria.
Un esito che non sorprende nessuno, ma che racconta molto più della sua apparente normalità. Perché, in realtà, dentro questa prevedibilità si nasconde una delle verità più amare della Calabria: la vittoria dell’astensionismo.
I numeri parlano chiaro, e quando i numeri parlano così chiaro, fanno male. Ha votato appena il 43,14% degli aventi diritto.
Significa che più di un calabrese su due non ha votato. E se Occhiuto ha ottenuto circa il 59-60% dei voti validi, in realtà è stato scelto da poco più di un quarto dei cittadini (il 27%). Il resto — quel 57% muto — ha preferito non esserci, voltare la faccia, non crederci più.

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Eppure, nelle ore successive allo spoglio, tutto è sembrato normale. I comunicati, i brindisi, le interviste, il lessico del trionfo. Ma dietro la vetrina c’è una verità spietata: in Calabria si vince anche senza essere davvero votati. È la vittoria del vuoto, la vittoria di chi resta immobile mentre la storia passa.
E qui sta il punto più doloroso, quello che molti evitano di dire: la Calabria non è così solo per colpa della politica, ma dei calabresi stessi.
Perché l’arretratezza non nasce solo dall’alto, ma anche dal basso. Dall’abitudine a lamentarsi senza partecipare, a criticare senza agire, a dire “tanto è tutto uguale” e restare immobili.
È la scelta più facile, la più conveniente.
Molti dei voti dell’astensionismo potevano andare a uno qualunque dei candidati, non importa a chi — ma almeno sarebbero stati una scelta, un segno di vita, un sussulto civile di una regione che sembra ormai rassegnata alla propria inerzia.
L’astensionismo, invece, è la conferma di una morte lenta: un elettroencefalogramma civico piatto.
Una terra che non partecipa, non reagisce e non sogna, non può essere salvata da nessun candidato o governo.
Torniamo un attimo indietro.

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Occhiuto, dopo essere venuto a conoscenza delle indagini della magistratura sul suo conto, si era dimesso via social, per poi ricandidarsi. Una mossa che, in qualunque altra regione d’Italia, avrebbe scatenato un terremoto politico. In Calabria no: qui tutto è eccezionale, quindi niente lo è davvero.
«Non è una tattica», disse.
«Voglio dare parola ai calabresi».
Ma la maggior parte dei calabresi non si è misurata con lui: lo hanno lasciato con i suoi elettori fedelissimi, nel bene e nel male. E se anche fosse stata una prova di forza, il risultato è ambiguo: ha chiamato il popolo, e la maggioranza del popolo ha risposto con l’eco del silenzio.
Il centro-sinistra, o meglio il nuovo campo largo, è arrivato all’improvviso, in corsa, ammaccato, trafelato e senza fiato. In una campagna lampo — la più breve della storia repubblicana.

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Un mese e mezzo per costruire una candidatura e delle liste credibili in una terra dove anche decidere una cosa semplice costa settimane di incontri, permessi e pressioni. Era come mandare un maratoneta a correre senza preavviso e senza allenamento: l’esito non poteva che essere scontato.
Occhiuto ha riproposto la sua squadra, con qualche volto nuovo, ma la macchina era rodata.
In Calabria, nel 2025, non era facile vincere: era impossibile perdere.
Eppure, dietro l’apparente trionfo, resta il sospetto di un paradosso: un presidente che si dimette, si ricandida e poi vince per “riconfermare il consenso” scopre che quel consenso, nella sostanza, non si è nemmeno presentato alle urne.
La verità è che in questa terra non si perde più per sconfitta politica, ma per abbandono civile.
Il popolo non crede, non partecipa. Si lamenta — e basta.
E così la Calabria continua a essere l’ultima regione d’Italia non solo nelle statistiche, ma nei comportamenti, anche e soprattutto per colpa dei suoi stessi abitanti.
L’astensionismo è il volto più triste del nostro tempo.
Non ha slogan, non ha leader, non ha coalizioni.
È la forma politica del disincanto, della rassegnazione e dell’inutile lagna.
E questa è la fotografia più precisa della sconfitta collettiva: quando la democrazia diventa una recita senza pubblico, il potere diventa autoreferenziale, e il popolo, complice silenzioso, applaude con una mano sola.
Vince la continuità.
Vince la conservazione.
Vince la scaltrezza e la spregiudicatezza travestita da coraggio.
Perde la speranza, perde la partecipazione, perde l’idea di futuro.
Perde quella Calabria che dovrebbe essere viva e invece è morta.
Perde la Calabria che non riesce a immaginare se stessa diversa da ciò che è: un eterno potenziale immobile, un fotogramma che si ripete da decenni.
E soprattutto, vince la Calabria del lamento e della retorica, quella che ha fatto della restanza e del ritorno due parole vuote, buone per i convegni e le tesi universitarie, ma non per la vita reale.
Perché la verità è che chi resta spesso deve rassegnarsi, e chi ritorna si ritrova catapultato in una realtà che non lo rappresenta, dove la terra non è fertile né per trattenere né per accogliere.
E così si resta e si ritorna soltanto per sbaglio, o per un amore che in realtà è finito.
Ora Occhiuto ha in mano il primo vero doppio mandato della storia calabrese.
È un potere e una responsabilità.
Potrà dimostrare se davvero la sua politica è visione o solo gestione.
Se saprà trasformare le promesse in strade, i comizi in ospedali, le parole in fatti.
Perché da oggi in poi non basterà vincere: dovrà convincere.
E non i suoi avversari politici, ma quella maggioranza silenziosa che non ha votato, che non crede più, che guarda la politica come una fiction già vista.
E finché il pubblico resterà fuori dalla sala, non sarà la politica a cambiare, ma il copione della sua assenza.
Perché la democrazia non muore quando sbagliano i governi, ma quando smettiamo di esserci.