Le mille Calabrie: un mosaico di ricchezze, non di ostacoli. È ora di governare con il cuore, non con le clientele
Il nemico non è la diversità ma l'incapacità di amarla, di farne carburante per un motore che da decenni gira a vuoto. Serve una politica vera, dal basso, che unisca monti e mari, greci e albanesi, in un abbraccio per il riscatto
C'è una Calabria che non si vede nei telegiornali, quella dei proclami vuoti e delle statistiche impietose. È la Calabria delle cime aspere del Pollino che si specchiano nel blu ionico, dei paesi grecanici dove l'antico idioma echeggia come un canto millenario, delle valli arbereshe dove l'albanese si mescola con il dialetto come rami di ulivi secolari. Aree montane che sussurrano storie di pastori e lupi, zone costiere che profumano di salsedine e di pescatori all'alba, piccoli centri aggrappati alle rocce come capre testarde, e città che pulsano di un'energia caotica, multietnica, viva. Mondi differenti, sì, che convivono in questa regione come note dissonanti in una sinfonia incompiuta. E forse è proprio per questo che governarla sembra un'impresa titanica, un rompicapo che sfugge alle mani di chi lo impugna con troppa fretta o troppa avidità. Ma se guardiamo più a fondo, il nemico non è la diversità ma l'incapacità di amarla, di farne carburante per un motore che da decenni gira a vuoto.
Le "mille Calabrie" – quel mito tanto caro ai cronisti da salotto – hanno fatto carriera come alibi per l'isolamento, per l'arretratezza dipinta a tinte fosche. «È la montagna contro il mare, il paese contro la città», si diceva, per spiegare un Sud che arrancava. Ma quante bugie in quelle parole. Erano narrazioni tendenziose, cucite su misura per assolvere chi governava da lontano, da Roma o da chissà dove, senza mai sporcarsi le suole con la polvere delle nostre strade. Chi rapinava questa terra attraverso i suoi "signori" locali, quei proprietari famelici che schiacciavano i contadini come formiche sotto un sasso. Isolamento? Arretratezza? No, era saccheggio sistematico, era il furto di un'anima collettiva che oggi grida vendetta.
Eppure, che ricchezza in quel mosaico. Paesaggi che si fondono in un caleidoscopio di colori: il verde cupo dei boschi aspromontani che incontra il turchese delle spiagge di Tropea, i prodotti della terra che si mescolano in un banchetto divino – olive grecaniche, formaggi arbereshe, pesce affumicato dal mare, funghi del sottobosco che sanno di mistero. Riti e feste che non sono folklore da cartolina, ma esplosioni di fede e di vita: la Varia di Palmi che fa tremare la terra come un terremoto sacro, le processioni occitane nelle valli del Bruzio che evocano un Medioevo vivo e pulsante. Culture secolari, minoranze linguistiche che sono tesori viventi – greco antico nei paesi jonici, albanese nelle comunità italo-albanesi, persino l'occitano che resiste come un'erba tenace. Rovine archeologiche che narrano duemila anni di storia: dai templi magno-greci di Locri ai castelli normanni, dalle torri saracene alle opere d'arte barocche che illuminano chiese dimenticate. Perché questi non dovrebbero essere i mattoni di una nuova identità? Perché non trasformare questa "mescolanza" in economie vitali, in un turismo che non sia il solito mare e ‘nduja, ma un viaggio nell'anima di un popolo? Un turismo intelligente, che rispetti i ritmi lenti dei paesi, che dia lavoro ai giovani grecanici e ai pastori arbereshe, che faccia di ogni roccia un capitolo di riscatto.
Invece, no. Finora – con rare, lodevoli eccezioni – i gruppi politici, gli economisti da salotto, gli intellettuali da tastiera hanno visto in questa diversità solo ostacoli. «Troppo complicato», dicono, mentre tessono le loro ragnatele di potere. Piccole "isole" di clientele, serbatoi di voti da prosciugare come pozzi aridi. Non il bene comune, ma il privato bottino: appalti truccati, terre svendute, promesse elettorali che evaporano come nebbia al mattino. E la gente? La gente calabrese, che ha lottato con le unghie e con i denti – occupando campi, emigrando con il cuore spezzato, resistendo alla fame – si ritrova con l'anima devastata. Rubata, come dice Vito Teti, da una politica che ha trasformato la "polis" in un'arena per gladiatori egoisti. Da trent'anni, le campagne elettorali sono un circo di slogan: "Rinascita!", "Sviluppo!", "Onestà!". Ma poi? Niente. Solo un distacco abissale tra chi promette e chi soffre. La fiducia si è incrinata, la speranza è un lusso per idioti. E in questo vuoto, crescono le tentazioni: sovranismi, autoritarismi, autonomie che puzzano di egoismo regionale. Eppure, la vera politica – quella attenta alle persone, ai bisogni degli "ultimi" – sboccia ancora nei gruppi di base, nelle associazioni che curano ferite invisibili, nel volontariato che è l'ultimo baluardo di solidarietà.
E le emergenze? Ce ne sono mille, intrecciate come le radici di un ulivo antico: disoccupazione che morde come un lupo, terre abbandonate che piangono la loro sterilità, 'ndrangheta che si annida come un convitato di pietra. Ma su tutte, grida più forte una: la salute. Non è retorica, è dramma quotidiano. Morire di malasanità, aspettare un anno per un esame in ospedali fantasma, chiudere reparti e centri di primo intervento mentre il Nord ci deride come "terra di nessuno". Non è giusto! Non è civile! La Calabria ultima non lo merita: merita medici valorizzati, ospedali che non siano ruderi, un diritto alla vita che non dipenda da calcoli economicistici o da lobby private. Partire da qui, dalle persone, dal loro benessere: è l'unica urgenza che può saldare le fratture tra monte e mare, tra paesi e città.
E i giovani? I nostri giovani, che fuggono come uccelli migratori da una gabbia dorata ma vuota. L'Università della Calabria, nata come un faro nel buio, ha formato generazioni, ha innescato mutamenti che ancora riverberano. Gli altri atenei – Catanzaro, Reggio, Cosenza – non sono da meno, con i loro laboratori di idee e di sogni. Ma perché non bastano a fermare l'emorragia? Perché sono sganciati dal mondo reale, dal lavoro che non c'è, dalle opportunità che svaniscono all'orizzonte. Molti partono per studiare altrove, convinti che qui non troveranno mai un futuro, e quel "mai" diventa eterno. Eppure, il diritto di partire deve coniugarsi con il diritto di restare: creare condizioni – economiche, culturali, sociali – perché chi torna non fugga di nuovo. Immaginate una Calabria aperta, mobile, colta: giovani che viaggiano, si formano nel mondo, e rientrano per tessere reti tra grecanico e arbereshe, tra costa e interno. Altrimenti, è la morte: una terra di tombe silenziose, dove il futuro è un'eco lontana.
E la 'ndrangheta? Quel mostro globale con radici locali, che non condiziona più la politica: la è diventata. Pochi ne parlano in campagna elettorale, e solo con frasi fatte, rituali come un rosario ipocrita. Eppure, è lei che rende invivibili paesi e città, che spinge alla fuga non solo per fame, ma per terrore. Non riduciamola a stereotipo, a "questione criminale" che criminalizza interi popoli: i calabresi non sono oziosi né delinquenti nati, sono vittime laboriose, oneste, che meritano verità, non mitologie leghiste. Gli anticorpi? Li abbiamo, ma deboli: vanno irrobustiti con la forza della cultura, della scuola che non chiude, del lavoro vero per i giovani, della cura per i paesi interni. Bravi amministratori, funzionari onesti, docenti motivati e retribuiti dignitosamente. Centri di socialità: musei che respirano, cinema che illuminano, biblioteche che aprono mondi. Sostegno economico non caritatevole, ma giusto, che dia a chi soffre la dignità di contribuire al cambiamento.
Sì, governare questa Calabria delle "mille facce" è complicato. Ma non per la sua diversità – che è il nostro superpotere, il nostro canto epico – bensì per l'avarizia di chi la tratta come preda. È tempo di rivoltare la tortilla: basta con le isole di potere, basta con il privato che divora il comune. Una politica vera, dal basso, che unisca monti e mari, greci e albanesi, in un abbraccio febbrile per il riscatto. O sarà troppo tardi. Calabresi, alzate la voce: questa terra non è un peso, è un miracolo da custodire. Con passione, con sudore, con l'anima. Perché la Calabria non è complicata: è immortale. Sta a noi farla rinascere.
*documentarista