Quote? No grazie. I parlamentari che scappano alla cassa e lasciano i partiti col cappello in mano (e col bilancio in rosso)
Dai debiti milionari ai riscatti in extremis, il retroscena tragicomico dei morosi della politica italiana
La scena è questa: una stanza silenziosa, un foglio Excel aperto, e un tesoriere con lo sguardo perso nel vuoto, che mormora frasi tipo “E questo chi cavolo è?” oppure “Ma non era uscito dal gruppo?”. Benvenuti nel mondo parallelo dei partiti italiani, dove fare politica è un mestiere, ma pagare le quote è una gentile concessione. Anzi, spesso è un’eccezione.
Negli statuti, nelle regole, nei bei discorsi da congresso, c’è sempre scritto che i parlamentari devono contribuire. Che chi è eletto ha il dovere morale (e finanziario) di sostenere la macchina organizzativa. Che il partito non è un bancomat, ma un progetto collettivo. Tutto molto bello. Poi però arrivano i numeri. E lì finisce la poesia.
I casi più emblematici sono quelli che riguardano il Movimento 5 Stelle. Sembrava la forza più ligia, con quel codice etico scolpito nel marmo e la restituzione obbligatoria di parte dello stipendio. E invece, ecco la sorpresa: 2,8 milioni di euro non versati da parlamentari e consiglieri regionali, più 1,4 milioni in indennità di fine mandato che nessuno ha restituito. Totale: 4,2 milioni evaporati.
Il tesoriere Claudio Cominardi non l’ha presa benissimo. Ha alzato il telefono, mandato diffide, convocato faccia a faccia, e alla fine ha deciso: chi non paga, non si candida più. Il principio è chiaro: “Non puoi fare il moralizzatore se non versi neanche la quota base”. Ma la realtà è che il M5S ha chiuso il bilancio in attivo (oltre 2 milioni di euro), e quindi la minaccia, per ora, suona un po’ come “Ti tolgo il gelato... ma solo se ne ho un altro in freezer”.
Secondo caso, il Partito democratico. Lì il problema è meno vistoso, ma non meno fastidioso. Il buco da morosità è di 441 mila euro, e il Pd ha cominciato ad agire per vie legali. Avvocati, raccomandate, tentativi di recupero forzato. “Non li abbiamo cacciati, ma li abbiamo convinti”, dice qualcuno dal Nazareno. Eppure la situazione è ancora precaria. Anche perché l’affitto della sede mangia mezzo milione l’anno, e le spese corrono più veloci dei contributi.
Poi ci sono gli eretici virtuosi. Tipo Sinistra italiana, che nel 2023 ha visto salire i contributi da 204 a 281 mila euro. L’unico partito dove il trend è in salita. Forse perché lì si sa già che nessuno salverà il bilancio dall’alto, né grandi mecenati né pacchetti azionari. O paghi, o non ci sono nemmeno le sedie per le riunioni. E quindi, si paga.
A destra le cose non vanno meglio. Fratelli d’Italia, il partito della premier, lascia la questione alla “libera volontà” degli eletti. E la volontà, sorpresa sorpresa, è scemata di 1,2 milioni in un anno. Stesso discorso per la Lega, che ha perso 700 mila euro nei versamenti. I bilanci? Entrambi in rosso. E la pazienza, anche. Perché ora si parla apertamente di seguire l’esempio grillino: niente quota, niente futuro.
Forza Italia, infine, galleggia. Il disavanzo è “contenuto”: solo 307 mila euro, tappati in parte da 128 imprenditori che hanno versato più di 1,5 milioni. Una rete di salvataggio privata che permette di respirare. Ma resta il problema dei morosi interni. Gente che prende, ma non dà. Che incassa, ma non versa. E che risponde alle sollecitazioni con frasi tipo: “Ma non c’è un errore nei conteggi?”
Il paradosso? I partiti sanno tutto: chi non paga, da quanto, e quanto. Ma fanno finta di niente fino a quando il buco è troppo grande per essere ignorato. Solo allora partono lettere, minacce, cambi di statuto. Ma senza mai toccare la poltrona. Perché quella, in Italia, non la tocca nemmeno Dio.
Nel frattempo, tra una morosità e una sanatoria, si diffonde un nuovo genere letterario: la mail accorata del tesoriere, inviata con oggetto “Gentile Onorevole, le ricordiamo...”. Spesso ignorata, a volte cestinata, raramente letta. Nessuno ha mai avuto il coraggio di scrivere: “Sei in debito, ma ci stai simpatico lo stesso”. E forse è un peccato.
Perché in fondo, in Parlamento, la vera unità nazionale è il non pagare la quota. Destra, sinistra, centro, populisti o progressisti: tutti uguali davanti al bonifico mancato.