Con “Gente comune” siamo tornati nello specchio di Black Mirror, ed è sempre più nero
Dopo anni di alti e bassi, la serie antologica torna con una stagione che ritrova la ferocia originaria e la lucidità distopica che l’avevano resa un cult. Charlie Brooker abbandona le derive estetizzanti e riabbraccia il cuore scuro della sua creatura. Il primo episodio è un pugno nello stomaco che ci ricorda quanto sia sottile il confine tra tecnologia e dannazione
Qualche anno fa sembrava che la carica atomica di Black Mirror, la serie antologica di Charlie Brooker, si fosse esaurita, concedendo troppo al vezzo d’autore, e mancando l’obiettivo delle idee che doveva essere il suo Nord.
All’epoca, siamo nel 2011, il debutto dei primi episodi fu folgorante. La distopia con cui l’autore dipingeva il futuro aveva così pregnante il sapore del presente, da risultare addirittura profetica.
Il mondo di Black Mirror rifletteva in un cristallo spezzato l’ambizione politica che diventa farsa porcina, il tentativo di vincere la morte che svuota la malinconia del ricordo, la sete di apprezzamento come unico mezzo per la scalata sociale e per una vita dignitosa. Le pillole avvelenate di cinquanta minuti appena, scivolavano giù goccia a goccia, non per mitridatizzare, ma per ucciderci.
Ma nulla dura per sempre e il fenomeno seriale soprattutto quando tirato per le lunghe, a volte finisce per diluirsi così tanto da annacquare anche il genio che lì ci ha abitato. Se poi a metterci lo zampino è l’egida di un gigante dello streaming come Netflix, la virata verso lidi più rassicuranti è bella che spiegata.
La serie ha cominciato ad apparire e scomparire per anni, come un capodoglio che prende aria e poi si immerge nei fondali oceanici per un tempo interminabile. Ogni volta che ritornava - annunciata dalla solita immagine di uno schermo nero scheggiato, in cui al centro ruota un anello simile a quello che vediamo sulle piattaforme quando tardano a caricare il contenuto richiesto - le aspettative erano tanto alte quanto la delusione che accompagnava i titoli di coda
Non questa volta, però.
L’ultima stagione della creatura di Brooker, concepita insieme ad Annabel Jones, ha lasciato alle spalle i tentativi passati (alcuni anche discreti, ma non all’altezza delle prime stagioni), per tornare a fare male, malissimo. Lo aveva detto Brooker stesso poco prima che la serie fosse rilasciata: «Black Mirror tornerà alle atmosfere e ai temi delle prime due serie». Promessa mantenuta.
Il primo episodio della stagione colpisce sotto la cintola. Si chiama “Gente comune” perché è quel tipo di umanità a essere sempre invischiata in gironi infernali fatti di burocrazie e inganni legalizzati. Sedotta dalla speranza, finisce inghiottita in un crepaccio. In quello sono caduti Amanda e Mike.
Sono una coppia sposata e felice. Lui si spacca la schiena in un cantiere edile, lei è una maestra elementare. Niente lussi, ma qualche concessione speciale in quel giorno di giugno segnato di rosso come “anniversario”.
Da tre anni si festeggia sempre al “The Juniper Lodge” (gli affezionati della serie coglieranno il riferimento a una puntata della terza stagione “San Junipero”): panino, birra e del buon sesso, sempre nella stessa camera. Da un po’ provano ad avere un bambino, ma la culla vuota diventerà l’ultimo dei loro problemi perché un giorno Amanda perde i sensi. La diagnosi è raggelante: tumore al cervello, inoperabile.
Mike è annichilito, ma la dottoressa, come extrema ratio, gli offre di parlare con la consulente di Rivermind, una nuovissima start up bioscientifica che promette miracoli.
Grazie a un software avanzatissimo, l’azienda è in grado di salvare in un Cloud tutti i dati del cervello malato e sostituire la parte compromessa con un tessuto sintetico che fa da ricevitore di un segnale che parte da sorgenti disseminate sul territorio, come fa un ponte telefonico con un qualsiasi cellulare. Mike dice di sì. Farebbe qualsiasi cosa pur di salvare la vita di sua moglie. Tutto, però, ha un costo. Tutto, però, ha un prezzo. In questo caso quello di un abbonamento che si trasformerà in un vortice crudele, impossibile, una trappola ogni volta più costosa quanto indispensabile.
“Gente comune” colpisce duro, più degli altri bellissimi episodi di una stagione memorabile per la serie, perché ci fa riflettere tutti nello stesso specchio, quello in cui per migliorare le nostre vite, siamo disposti a concedere sempre di più, sempre di più. Finché non resta niente. Non la dignità, non la libertà. Neanche i denti.