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31/12/2025 ore 17.59
Good Morning Vietnam

Da Adolescence a Stranger things, cosa abbiamo visto nel 2025: ecco le migliori serie e miniserie

In un anno ipertrofico di uscite, tra hype costruiti e prodotti usa-e-getta, poche serie hanno saputo raccontare il presente con lucidità e coraggio

di Alessia Principe

Il 2025 è stato un anno ipertrofico per serie e miniserie, ma nel mare sconfinato (e spesso in tempesta) dello streaming solo poche meritano davvero di essere messe nella famosa lista. Ecco quelle scelte per voi.

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Adolescence (Netflix)

Uscita nel marzo scorso Adolescence è la migliore miniserie dell’anno. Attraverso infiniti piani sequenza ha offerto al pubblico lo spaccato di un mondo incrinato, quello degli adolescenti cullati nella solitudine e nell’ozio. La serie sbatte in faccia agli spettatori l’odio, germinato nelle generazioni che ora iniziano il salto dalla scuola elementare alla media, che ha assunto la forma di piccoli visi scontenti, imbronciati. Tutto parte da una tragedia: l’assassinio feroce di una ragazza e della caccia a un colpevole tutt’altro che scontato.

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Severance (Apple+)

È una delle serie di punta della mela mangiata: Severance nell’ultima stagione si annoda moltissimo, ma riesce a svicnolare al rischio di apparire tropp fuoco e poca carne. La serie di Ben Stiller resta raffinatissima e curiosa e parte da una domanda: cosa accadrebbe se entrando ogni mattina in ufficio, tutto quello che è accaduto poco prima di varcare le porte dell'ascensore aziendale svanisse dalla nostra mente? Non solo una dimenticanza, una distrazione, ma una temporanea e volontaria cancellazione. Siamo tutto quello che ricordiamo, o restiamo noi stessi anche se una parte della nostra memoria non c’è più? Chi siamo se dividiamo il nostro io che lavora, dal nostro io che vive fuori? 

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Pluribus (Apple)

Per le prime puntate non fai che ripeterti: deve piacermi, deve! Però… insomma, non è che sia proprio una calamita. E allora cadi nella trappola di credere che forse è colpa tua, che sei nel momento sbagliato, nel mood sbagliato, con l'umore storto. La verità è che non ti piace abbastanza, ma non vuoi ammetterlo.

Ma è una serie di Vince Gilligan, dannazione, e Vince Gilligan è un genio e tu lo ami, lo ami e ti fidi di lui anche quando non capisci dove diavolo sia finito in quella storia che però piace a tutti, ma tutti-tutti. Ecco di che parla: nel mondo si è diffuso una specie di virus alieno che rende tutti uniti in un’unica mente alveare e seguaci della filosofia della gentilezza a tutti i costi, anche oltre ogni ragionevolezza e sopportazione. La protagonista è una scrittrice arrabbiata con l’Universo, cinica (ma lei direbbe “realista”), che non reagisce molto bene a questa diffusa bontà.

Gli umani, uniti in nome della felicità perenne, la trattano come un tesoro adorato, e questo non fa che farla infuriare ancora di più. Così Carol trascorre le prime settimane a irritare gli inirritabili nuovi umani, fino a quando il peso della solitudine la fa cedere. Ma qualcuno è in viaggio…

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Black Mirror (Netflix)

La settima stagione torna come una bomba a mano lanciata su un campo di mine. Black Mirror qui recupera lucidità e ferocia, parlando di intelligenza artificiale, nostalgia digitale e solitudine tecnologica. Non tutti gli episodi sono memorabili, ma l’insieme è di nuovo disturbante.  Qualche anno fa sembrava che la carica atomica di Black Mirror, la serie antologica di Charlie Brooker, si fosse esaurita, concedendo troppo al vezzo d’autore, e mancando l’obiettivo delle idee che doveva essere il suo Nord. L’ultima stagione della creatura di Brooker, concepita insieme ad Annabel Jones, ha lasciato alle spalle i tentativi passati (alcuni anche discreti, ma non all’altezza delle prime stagioni), per tornare a fare male, malissimo. Lo aveva detto Brooker stesso poco prima che la serie fosse rilasciata: «Black Mirror tornerà alle atmosfere e ai temi delle prime due serie». Promessa mantenuta.

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Stranger things (Netflix)

L’ultima stagione arriva dopo circa mezzo secolo dal finale. I ragazzi ormai sono uomini e donne di una certa età; qualcuno forse è diventato nonno nel frattempo. Il lancio della nuova stagione targata Duffer Bros è stata stellare: come al Jurassic Park non si è badato a spese. Da Singapore a Honolulu, passando per Londra e Madrid: fuochi d'artificio, droni, pannelloni, serate a tema, laser, sfilate, metro personalizzate per il gran finale. Dopo la prima stagione, che era davvero interessante, il seguito è diventato una giostra per ragazzi.

Gli omaggi al passato (libri, film, telefilm degli anni 80) si sono trasformati, negli anni, in un citazionismo sempre più spinto e audace. A un certo punto da curiosità spiluccata qua e là, tutto è diventato una macedonia, un riciclone e nella centrifuga abbiamo visto i resti di Stephen King galleggiare insieme a quelli di Steven Spielberg; Disney macellato con Carpenter, con Lucas, con Hulk, e in ultimo con Alice nel Paese delle meraviglie, con Frankenstein Jr., con Jurassic Park. Trascorse due stagioni non si poteva parlare più d’una carezza alla cinematografia nerd, ma di una rapina a mano armata. Lo script, sempre più caotico, assomiglia a un barbecue in cui la carne al fuoco è così abbondante da finire accatastata (e servita cruda).

Dopo tre anni (sono tre?) dal finale della penultima stagione, finalmente è quasi finita questa giostra chiassosissima dove succede una cosa al secondo, come se si avesse paura che rallentando il passo si possano vedere tutte le crepe che comunque si notano lo stesso: dalle situazioni di “facciamo un piano” col pennarello sul vetro, alla straordinaria perspicacia dei protagonisti e comprimari che riescono ad analizzare e trovare soluzioni così, all’improvviso, collegando, analizzando e poi, con sguardo laterale, arrivando a conclusioni sempre giustissime con una bella battutina sarcastica che corre di bocca in bocca, per chiudere la scena con quel pizzico di pepe. Roba vista già e meglio, di gran lunga.

Non è granché neppure il coming out di Will (quello che dieci anni fa era un bambino e ora un uomo) che ha lo stesso taglio a tazza di quando scomparve a otto anni e ora che è adulto piange di continuo. Insomma, c’è questo mostro che sta per fare inghiottire il mondo e la banda che deve salvarlo deve stare lì a passare a Will i fazzoletti. Non è questo l’eroe per caso, l’eroe suo malgrado. Non lo è. Stranger things è un fan service, poco di più, una miscellanea di storie famose frullate e girate con un budget da capogiro, un Frankenstein assemblato con i ricordi della golden age della Tv e incollato con la mano gelatinosa delle patatine Pai. Comunque andrà a finire, qualunque cosa si siano inventati per chiudere, alla fine resterà poco e a noi, quelli della generazione X, la sensazione che qualcuno nella metro ci abbia appena svuotato le tasche.

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Monster: The Ed Gein Story (Netflix)

La serie che non ti aspetti. I creatori della raccolta antologica “Monster”, Ryan Murphy e Ian Brennan (quest’ultimo ha scritto per intero questa stagione) nell’ultimo atto scelgono una via diversa, ma di gran lunga più accattivante, di quella percorsa con Dahmer, il cannibale di Milwaukee, e i fratelli Menendez. “La storia di Ed Gein”, infatti, si allarga sulle conseguenze e l’impatto sociologico che la narrazione cinematografica della follia tradotta in crimine bestiale, ha avuto nei decenni. Se è un mostro che credete di trovare, l’Ed Gein del terzo capitolo della saga Netflix “Monster”, dedicata ai più sanguinosi criminali d’America, non sarà tra quelli. 

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Your Friends & Neighbors (Apple)

Sotto la patina borghese, il vuoto; sotto il vestito, niente o quasi. Your Friends & Neighbors racconta relazioni, ipocrisie e fragilità della middle class americana con uno sguardo ironico e malinconico. È una di quelle storie che sembrano piccole, ma parlano di tutti. John Hamm è ricco, ricchissimo e ha amici ricchi come lui. È una specie di genio della finanza, ma a un certo punto tutto va storto e lui perde ogni cosa. Ma per mantenere il suo tenore di vita decide di fare una cosa estrema che scoprirà essere un vero e proprio talento nascosto: rubare in casa dei vicini. 

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All her fault (Sky)

L’attacco di questa miniserie con Sarah Snook (la Shiv Roy di Succession) è un incubo distillato: una mamma va a prendere il proprio bimbo a casa di un amichetto, per poi scoprire con orrore che in quella casa suo figlio non c’è e non c’è mai stato. Il giallo si dipana seguendo la classica trama a mosaico: ogni puntata riempie un tassello e punta il faro su un sospetto, per poi smontare tutto, confondere, rimescolare i pezzi e ricominciare. Costruita ad arte per aumentare la tensione puntata dopo puntata, e tratta dal romanzo della scrittrice irlandese Andrea Mara, la miniserie cavalca verso un super finale che promette scintille.

Oltre alla Snook, che è bravissima ma piange tanto, troppo, c’è anche Dakota Fanning. È una storia mystery, d’accordo, ma è anche un faro sulla maternità, sul peso a volte schiacciante dell’essere donna e lavoratrice anche in una condizione di apparente benessere, sull’indifferenza che spesso circonda le madri a cui tutti chiedono responsabilità e sacrificio e alle quali poi non si perdona niente.

The Beast in Me (Netflix)

La storia si fa guardare. Non saliremo sulle montagne russe, né dormiremo tra una puntata e l'altra. Se, come me, dividete le cose a fasce orarie di merito, diciamo che questa miniserie vale una visione pomeridiana nel giorno di riposo. Parliamo della classica produzione Netflix raffinata, con bravi attori, bella fotografia e tanti conflitti interiori che si intrecciano con il male che arriva dall'esterno. Claire Danes è brava, a volte troppo (troppo) sopra le righe, ed elettrica come un filo impazzito scappato dal traliccio; funziona di più Matthew Rhys nella parte dell'inquietante vicino di casa multimilionario e sospetto omicida. Peccato invece per Jonathan Banks (Better Call Saul e Breaking Bad), decisamente sottotono (ma dico: si può dare a lui la voce che fu di Walter White? Ma no!)

Apple Cider Vinegar (Netflix)

Più che la fattura, interessante l’argomento. Il titolo: Apple, Cider, Vinegar (letteralmente “Aceto di mele”) richiama un condimento salutare e naturale, perfetto per innaffiare le nostre ipocondrie, meglio se bio – una parola di tre lettere che racchiude l’etichetta della grande ossessione (e del grande inganno) del ventunesimo secolo: il cibo sano. La miniserie parte da qui, dalla storia di Milla, un’influencer malata di cancro che promuove sui social il metodo Hirsh, creato da un sedicente cerusico d’inizio secolo che spaccia beveroni come panacea per tutti i mali; da quella di Lucy, una donna con un tumore al seno terminale innamorata delle health blogger; e da quella di Belle Gibson (unico personaggio reale chiamato con il suo vero nome che ha il volto di Kaitlyn Dever), arrembante ragazza australiana che capì prima e meglio di altri, che sulla salute non si può scherzare, ma ci si può guadagnare e bene.

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Dept.Q (Netflix)

Una di quelle serie che segue lo schema classico del noir a doppio binario narrativo. C’è una linea lunga che racconta la vicenda personale del protagonista: Carl Morck (Matthew Goode), un poliziotto borioso e intelligentissimo, dotato di un ego strabordante e dell’acume affilato del narcisista con il vizio del sarcasmo che subisce un’aggressione che lo farà vacillare. C’è l’agente siriano, che ricorda nelle fattezze il Groucho di Dylan Dog, r diventerà il vostro preferito in pochissimo tempo, la segretaria svampita. Le battute ben scritte, il montaggio alternato fa quel che deve fare. Insomma, funziona. Non è un capolavoro del genere, questo no. Ma è la classica serie che si gusta in fretta e con gusto, un finger food ben fatto, con ingredienti di qualità.In arrivo la seconda stagione.