Il Mostro di Sollima è l’ennesima prova che nel cinema la scrittura conta meno dell’estetica
La miniserie Netflix dedicata al caso del “Mostro di Firenze” è un perfetto involucro estetico, ma vuoto dentro. Si guarda, si consuma, si dimentica. Il vero delitto? I dialoghi
IL MOSTROEMANUELA SCARPA/NETFLIX
“Il Mostro” è quello che doveva essere: packaging perfetto imbustato secondo i canoni Netflix - patinetta, esposizione bassa, luci diegetiche di lampade dimmerate al minimo - e pronto da mangiare.
Presentata in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, la miniserie, nella prima stagione, parte da lontano: dalla pista sarda e da un bossolo e una pistola – una Beretta calibro 22 – che hanno viaggiato per quasi vent’anni, armando la mano del maniaco che uccise e mutilò otto coppiette appartate nella campagna toscana, seminando il panico e accendendo strascichi processuali che ancora non si possono dire esauriti.
L’Italia, con questa produzione Netflix, ha tirato fuori “il caso dei casi” - quello che ispirò anche Thomas Harris, autore de Il silenzio degli innocenti, che seguì con avido interesse, molte udienze del processo a Pacciani - per competere ai massimi livelli con i maestri internazionali del crime.
Purtroppo Sollima, che pur ci aveva abituati a ben altre altezze, ne esce con le ossa mezze rotte. Perché, nonostante gli sforzi scenografici, la sceneggiatura è fragile, fragilissima, e non ce la fa a sorreggere tutto. Non basta avere un’attrice che somiglia a Dana Scully, vestita perfettamente anni 80, se le sue battute sono così scolastiche da essere quasi urticanti; e non aiuta avere alle sue spalle un ispettore, anche lui stirato e abbigliato d’antan, che fuma con il bocchino e interviene come una spalla di teatro che vuole farsi sentire fino alle ultime file.
La miniserie firmata da Stefano Sollima, sulla genesi del caso che scosse una generazione, rubricato come “Il Mostro di Firenze”, conferma quello che è il grande guaio del cinema italiano degli ultimi anni: la scrittura.
Sarà questione di metodo, di ascolto, di revisione; sarà che dialoghi che suonano come buoni a prima lettura sono in realtà mediocri; sarà che bisogna chiudere in fretta, che si lavora con i paletti, che ci sono recinti entro i quali muoversi, target da rispettare, ma la realtà è questa: abbiamo perso la scrittura per strada. Non è sufficiente un attore sussurrante, una luce spenta, costumi vintage ricercati, l’oggetto d’epoca o una storia vera, per fare un buon film (o una discreta serie) che finisce per rimanere qualcosa di scarso valore anche se la gente lo guarda (la serie è tra le più viste di Netflix). Basta tuffarsi su cose migliori - anche solo riguardando gli sceneggiati del nostro passato - per capire la differenza e non accontentarsi più.
In tutti gli episodi non c’è mai una battuta folgorante, una trovata, un dialogo che resti. «Le prigioni sono come il club del ricamo. Le voci girano». Line brevissima, che si apre a corolla e mostra senza stra-dire: un’immagine scolpita all’improvviso. È di Mindhunter, bellissima serie crime firmata dal David Fincher di Zodiac.
«Lo capisce che sua moglie la ama ancora?» La battuta-clou della procuratrice ne “Il Mostro”. Ridondante, stonata, inutile. Né serve alla storia, né alla scena. Un editor l’avrebbe segnata da sostituire o cancellare. Invece galleggia lì insieme a svariati spiegoni e molte domande.
I personaggi, poi, si muovono in scena come bestie acquatiche, con una lentezza esasperante, teatrale, o come astronauti sulla Luna, e questo conferisce all’insieme un carattere di passiva fissità anche nei momenti più concitati.
Nel terzo episodio, ad esempio, una donna esce con un uomo invischiato, a sua insaputa, nella faccenda degli omicidi. Dopo una cena, entrano in macchina. La scena inizia a montare in tensione, lo spettatore dovrebbe chiedersi: Cosa sta succedendo? La ucciderà? La riporterà a casa? Ma il filo si spezza quasi subito. Il momento acme è faticoso, stenta, soffoca il pathos, muore (non la donna, l’emozione).
Paragoniamo questo momento a una scena simile di The Woman of the Hour (Netflix), film uscito qualche mese fa e diretto e interpretato da Anna Kendrick. Durante la cena, lei e il suo accompagnatore sembrano una coppia come tante. Poi qualcosa cambia: lui si fa ombroso, passivamente aggressivo; nel dialogo si crea un’incrinatura e nella donna sboccia il disagio, l’insicurezza. È nervosa per quel primo appuntamento con un uomo che reputa affascinante, vuole piacergli, eppure a un certo punto la sensazione che sia “sbagliato” saetta nella sua testa come un allarme. Usciti dal locale, lei si affretta verso l’auto, cerca le chiavi, parla senza guardarlo. È un momento di altissima tensione costruito sulla sospensione, e lo spettatore resta con i pugni stretti fino all’ultimo secondo.
Un divertimento tensivo che nella serie italiana latita completamente.
Un’altra pecca della serie è la costruzione temporale che è molle e caotica: i passaggi tra presente narrativo e passato non sono curati bene o segnati chiaramente e, nel buio generale della scena, il rischio di confondersi è altissimo. Mancano dei buoni ganci e poi manca l’indagine, metronomo necessario al ritmo.
Non basta seguire i vari sospettati se poi non c’è un buon incastro. L’intento, almeno sembra, doveva essere quello di seminare delle convinzioni nello spettatore da «ecco, allora lui è il colpevole», per poi smontarle progressivamente, creando un senso di piacevole straniamento. Non è materia per tutti la scrittura, certo, ma il gioco del giallo funziona solo se funziona bene, altrimenti è meglio lasciar perdere.