“Le rose di Versailles” su Netflix: un remake disastroso che tradisce l’anima di Lady Oscar
La figura iconica creata da Riyoko Ikeda, viene stravolta in una versione melensa e commerciale, firmata dallo Studio Mappa. Il risultato è un pasticcio visivo e narrativo che cancella personaggi fondamentali, appiattisce le trame e riduce a videoclip pop la profondità storica e drammatica dell’opera originale
“Le rose di Versailles”, da poco su Netflix, è uno sterminio senza ostaggi e senza giusta causa. Vittima di un nuovo adattamento animato, frenetico e scoraggiante, Lady Oscar Francois de Jarjayes, guerriera da sempre in marcia ostinata e contraria, si è trasformata in un personaggio piatto e sbiadito.
Il passato, tagliato e ricucito, continua a dar vita a “Creature” shellyane ibride e mostruose che hanno solo una vaga somiglianza con le opere originali, decostruite e ricomposte per restituire loro una giovinezza di cui non avevano bisogno, seguendo una pratica di rifacimenti selvaggi che assomiglia più a una tossica deforestazione amazzonica. Il problema di base è che le idee sono finite o scarseggiano, e se l’acqua è poca, la papera non galleggia. E si vede.
Ikeda da madre a matrigna
La spadaccina bionda, inventata dalla mangaka Riyoko Ikeda più di cinquant’anni fa, è così caduta nella trappola di un’operazione di marketing più sanguinolenta del post-rivoluzione francese. Da eroina fuori dalle righe, è stata ridotta a un’emulsione dolciastra con la benedizione della sua creatrice (e ora carnefice) Ikeda, soddisfatta che l’estetica del manga fosse riproposta sullo schermo, confermando – ancora una volta – la scarsa capacità degli autori di adattare i registri scritti a quelli visuali.
Rose sfiorite
Dopo un anno di attesa, di “hype” (così si dice per indicare la frenesia che accompagna un’aspettativa), Netflix, alla mezzanotte del 30 aprile, ha regalato al pubblico mondiale il suo prodotto di punta: “Le rose di Versailles”, titolo declinato al plurale per fedeltà alla filosofia del manga da cui fu tratto l’anime, ispirato non solo al capitano delle guardie reali dai lunghi capelli d’oro, ma soprattutto alla regina Maria Antonietta.
Il giardino della Ikeda, in manga e anime, era colorato non a caso: mentre Oscar rappresentava la purezza, quindi la rosa bianca, la rosa rossa indicava la passione della regina per il suo Fersen, il giallo l’invidia di madame Polignac, il rosa la tenerezza di Rosalie, il nero l’anima di Jeanne Valois (protagonista dell’intrigo della collana). Peccato che nel film, di questo bouquet, in realtà ci siano rimasti solo steli secchi.
Dalla spada ai cuoricini-cuoricini
Prodotto dal famoso studio Mappa, il film, che già aveva debuttato in Giappone a gennaio scorso con scarsi risultati al botteghino, è in cerca di riscatto soprattutto nel mercato europeo, che all’epoca consacrò la serie, regalandole un successo di gran lunga più forte di quanto avvenne in madrepatria. Purtroppo, più che grazia, “Le rose di Versailles” potrebbero trovare giustizia.
Nel film di Mappa, la storia della guerriera francese, che cresce come un maschio per volere del padre, sì, ma rendendo quell’educazione una forma di affrancamento dai vincoli sessisti che animavano (o animano) la società, rinunciando, infine, a tutto per difendere i più deboli, ne esce bollita, fusa e colata in stampini per caramelle gommose a forma di cuoricini, con buona pace della drammaturgia raffinata e sartoriale che aveva ricamato la serie degli anni andati.
Il taglio melò del film è sgradevole come un aroma dolciastro persistente, e il fine commerciale è tanto evidente quanto molesto. Le giovanigenerazioni (da scrivere tutto attaccato), considerate il target di riferimento di questa operazione mercenaria, vengono evidentemente considerate come un pubblico decerebrato e distratto (a torto), incapace di apprezzare e amare una storia complessa come quella di Oscar, con tutti gli spigoli, le backstories, le linee narrative diversificate e la profondità storica a cui ci aveva abituati l’anime.
Un remake da dimenticare
La giovane regista Ai Yoshimura, tra le poche director femminili del mercato Anime, perde un’occasione preziosissima per mostrare che si può rivestire un personaggio senza svuotarlo, cedendo alla seduzione del compito facile da completare a occhi chiusi.
Yoshimura, con la character designer Mariko Oka e la complicità della sceneggiatrice Tomoko Komparu, ha pensato di discostarsi dall’originale in toto e di non raccogliere nulla – ma proprio nulla – della lezione del maestro Osamu Dezaki, mitologico regista di anime che, con i character designer Shingo Araki (che curò le figure maschili) e Michi Himeno (che si occupò delle donne), firmò la serie originale di Lady Oscar (nonché di Rocky Joe), puntando tutte le fiches a disposizione sugli amoracci che infiammano il manga: la passione bruciante tra Maria Antonietta e il conte di Fersen, il sentimento di Oscar non corrisposto nei confronti del nobile, l’amore carsico che André Grandier cova dall’infanzia nei confronti di madamigella de Jarjayes che, infine, capitolerà quando sarà tardi per vivere la vita che il suo amato sognava.
Il design, ultramoderno, fa anche pasticci con la colorazione eccessivamente luminosa anche nei momenti più cupi - decisamente troppo “marshmallow” e bilancia in sfocatura non benissimo i fondali rispetto alle figure in primo piano. Nota al merito per i dettagli degli interni barocchi della corte, gli intarsi degli arresi e i broccatib delle vesti, riprodotti con cura quasi certosina.
Le canzoni
Le quasi due ore piene di film trascorrono tra un gridolino squittente di Maria Antonietta e un’insalata di immagini montate come un videoclip, forse nella disperata speranza di catturare per sfinimento l’attenzione di spettatori sballottati di carosello in carosello, ingabbiati in un soggetto scarnificato all’osso.
Ad ogni piè sospinto, attacca un giro di canzoni pop anglo-giapponesi sottotitolate, col compito di fare da riassuntone delle parti trascurate dalla sceneggiatura. Una scelta che ha il solo scopo di promuovere i brani (sono addirittura quindici) che si succedono a ritmo incalzante e che per un soffio non fanno saltare il film nella categoria “musical” (ci mancava solo questo).
C’era una volta Oscar...
Il buonsenso porta a non mettere mai a paragone i prima e i dopo. I remake (o reboot) si scontrano quasi sempre con l’integralismo di chi è affezionato a una certa narrativa, a una certa estetica, e non accetta le innovazioni per partito preso. In questo caso, però, è proprio il buonsenso che dirotta nella direzione inversa: quella di partire dall’eccellenza del passato per capire come non ripiombare più nell’indecenza del presente, che non aggiunge, semmai toglie.
Il successo del cartone animato degli anni ’70 deve tutto a una costruzione filmica accurata e amorevole: la chiara impronta cinematografica emerge dalle prime scene e la narrativa gioca su una voce off che regge l’ossatura storica (in Italia fu del bravissimo Sergio Matteucci) e sull’alternarsi tra le vicende principali e quelle laterali che donano profondità e poetica allo script.
Tagli di luce naturale – come l’effetto lens flare - attraversano spesso le tavole disegnate a mano, giochi di prospettive sottolineano poi i momenti topici, così come le “cartoline” (i fermo immagine acquerellati, segno distintivo del duo Dezaki-Araki) che fissano gli istanti del dramma e della sospensione. Il tutto è incorniciato da una colonna sonora sontuosa che accompagna, o meglio, cavalca tutta la storia con un trionfo di archi.
Accarezzano drammi e combattimenti pezzi di classica di Bach (“Invenzione a due voci in Re maggiore” e Preludio), Jean-Philippe Rameau (“La Dauphine”), Boccherini (“Minuetto”) e le composizioni originali di Kōji Makaino, che firma anche le versioni strumentali rispettando un criterio di coerenza storica (frequente è l’uso di archi e strumenti a corde pizzicate come il clavicembalo).
A questo si aggiunge una cura sorprendente dei dialoghi e della costruzione scenica con tagli importanti rispetto al manga, assolutamente in armonia con la scelta narrativa della sceneggiatura televisiva.
La parte più controversa del manga torna nel film
Nell’anime fu completamente omessa la parte più controversa del manga, che invece viene riportata in vita ne “Le rose di Versailles” e che, probabilmente, è tra gli elementi che la Ikeda ha più apprezzato della nuova trasposizione, perché tocca un tema a lei molto caro: quello del suicidio, che ricorre anche in un’altra sua opera molto particolare, “Caro Fratello”.
Nel manga vediamo André che, ispirato da un romanzo di Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloïse, disperato al pensiero che la sua Oscar possa sposare qualcun altro, in un impeto di follia decide di avvelenare la sua amata per poi togliersi la vita.
Nel manga assistiamo alle pene crescenti di Grandier che mutano in pazzia, tanto che lui stesso è consapevole che neanche nella morte sarà vicino a Oscar, destinata alla luce del Paradiso, quanto lui alle fiamme dell’Inferno per quell’atto che sta per compiere.
Il vino avvelenato, tuttavia, sfiorerà appena le labbra di Oscar, perché André, risvegliato dal ricordo della promessa fatta alla sua madamigella di difenderla sempre a costo della vita, scaraventerà lontano il calice, salvando la guerriera da una fine immeritata.
Nel film di Yoshimura questa storia – nodo tra i più complessi della storia originale – viene riesumata e consegnata agli spettatori nuda e cruda e molto in fretta, con una superficialità imbarazzante.
La violenza, drammatica e disturbante, fu usata da Ikeda nel manga per innescare una trasformazione emotiva e sbloccare una situazione di stallo che impediva alla storia tra Oscar e André di esplodere.
Entrambi sono prigionieri di ruoli e aspettative: lei costretta in un ruolo maschile, lui in quello del servo devoto che sta per diventare cieco. Il tentato omicidio è il momento in cui le maschere sociali crollano e ciò che resta sono due esseri umani spinti al limite.Un passaggio psicologico che – inutile dirlo – nel film è inesistente.
Addio comprimari
Se tanta perizia c’è stata nello scegliere quel pezzo di storia così indigeribile in un contesto disegnato come un Harmony, tanta faciloneria regista e sceneggiatrice hanno mostrato nei tagli dei comprimari.
Nel film, tutte le storie laterali sono state falcidiate senza pietà. Nessuno dei personaggi che resero l’anime originale un capolavoro viene raccontato. Via la contessa di Polignac, via la Du Barry, via la splendida Jeanne Valois con tutta la parte dell’intrigo della collana (forse una delle storyline più belle dell’anime), riassunta in due fotogrammi fugaci inseriti in una sequenza musicale.
Via anche Rosalie, che appare solo in una scena inspiegabilmente edulcorata di una violenza necessaria a mostrare la crudele indifferenza della nobiltà verso un popolo frustrato e affamato.
Una fine terribile
Se è pur vero che quaranta puntate permettono uno sviluppo approfondito della storia e di quelle dei tanti comprimari che vivono nella serie, è vero anche che delle dure ore di film moltissimo è stato sprecato dagli insert musicali totalmente fuori luogo e fuori contesto.
Un esempio lampante è rappresentato proprio dalla scena madre: la morte di Oscar sotto i bastioni della Bastiglia. Nell’anime originale, poco prima dello sparo fatale, cessano musica ed effetti sonori. Oscar distoglie gli occhi per un istante dai cannoni e guarda verso il cielo. In quel momento, una colomba bianca taglia l’azzurro. È il momento di silenzio prima della fine. Poi una scarica di pallottole trafigge la guerriera, che, ferita a morte, continua a gridare al “Fuoco” per portare a termine la sua missione. Poesia.
Nel film di Yoshimura, il momento è inquinato addirittura da una canzone che gracchia in sottofondo come un disco rotto. Lo spettatore, a quel punto, non sa se leggere i sottotitoli del brano o ascoltare le parole della protagonista trasportata a braccio dal fido soldato Alain (che in Italia per qualche misterioso motivo viene chiamato Alàn).
“Le rose di Versailles” si chiude così, con la classica voce off e le scritte riassuntive a carattere storico. Fine. Per fortuna. Adesso, finalmente, possiamo dimenticarcene per sempre.