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29/12/2025 ore 09.00
Leggendo Alvaro insieme

Alvaro inviato speciale: viaggi e corrispondenze che svelarono i totalitarismi del Novecento

Dalla Berlino postbellica alla Turchia in trasformazione e alla Russia di Stalin, Alvaro racconta i grandi mutamenti storici, denunciando le ingiustizie e anticipando i pericoli dei regimi totalitari

di Aldo Maria Morace
Corrado Alvaro

Era stato a Parigi per un anno, nel 1922, come corrispondente del «Mondo» di Amendola. Ma dopo «la rotta delle opposizioni» al fascismo era diventato molto difficile, per Alvaro, lavorare in Italia; e allora ecco che, a cavallo fra la fine del 1928 e i primi mesi del ’29, accetta di emigrare temporaneamente a Berlino, dove lo attendeva Pirandello, per una serie di corrispondenze.

È una tappa fondamentale. Alvaro ha modo di perfezionarsi da inviato speciale e di dimostrarsi un osservatore acutissimo della Germania in un momento fondamentale della sua storia; e questo gli frutterà, in seguito, altri viaggi in altre realtà straniere, sempre come giornalista che le indaga e le trasmette ai lettori, acquisendo una serie di esperienze culturali che feconderanno tutto il suo lavoro di scrittore.

Nessuno ha colto, come Alvaro, ciò che stava maturando in terra tedesca. Era un paese che non riusciva a elaborare il lutto della guerra perduta; e questo trauma si rifletteva anche in aspetti che dovrebbero essere edonistici («Ballavano come se marciassero»). L'osservatore percepisce profeticamente che la Germania è percorsa da ondate di aggressività e di crudeltà, esaltando l'ordine militaresco delle folle e persino i rituali privati con il canto di «Deutschland über alles»; e se forti sono i pregiudizi contro gli italiani, l'odio razziale già si esercita contro gli ebrei (scopre qui cosa siano semitismo e antisemitismo), anticipazione funebre del Terzo Reich e della voragine che attende l'Europa.

Le corrispondenze piacquero e «La Stampa» fece di Alvaro uno scrittore di viaggio, in Turchia e poi in Russia, ma anche in Italia. Fra il 1931 e il ’32 vengono pubblicati sul quotidiano torinese una ventina di articoli, quasi tutti subito raccolti in Viaggio in Turchia e corredati da una serie di fotografie, non si sa se dell'autore o redazionali. La prosa dell'Alvaro viaggiatore potrebbe apparire ― e molti lo hanno scritto ― troppo densa di letterarietà; ed è invece la sperimentazione di un modo nuovo di narrare un paese, una nazione, restituendone l'atmosfera attraverso una sequenza in afflusso di annotazioni e di descrizioni, in cui se ne coglie il passato e il presente.

La Turchia stava vivendo una trasformazione epocale, volta a europeizzarsi nello Stato, divenuto repubblica, e nelle forme della vita quotidiana, compresi gli abiti occidentali (è il seme di L’ultima delle mille e una notte), e persino nella scrittura, non più in caratteri musulmani. L’occhio scrutatore di Alvaro coglie dovunque il lento dissolversi di un mondo millenario, per effetto della violenza esercitata da una civiltà più evoluta, che impone le sue leggi e i suoi costumi di vita. Ma ritrovare le tracce vistose del passato ― e della presenza romana ― non rimuove la percezione degli immensi problemi che attanagliano la nazione (scarsa popolazione, arretratezza dell'agricoltura, pochezza della borghesia). Ed è una lettura che ha la sua chiave privilegiata nelle donne, nel loro «viso d’eterno lavoro», in cui si coagulano natura, memoria, tradizione, identità, razza.

Il viaggio si conclude in Grecia, ad Atene: un ritorno al mare, dopo tanta terra attraversata. Il Mediterraneo è migrazione in cui «si misurano le patrie» («non un palmo di costa è senza storia»), luogo di «conflitti e rivalità», ma anche di «mescolamenti» fra i popoli. È lo «specchio mobile della più vecchia Europa», nel quale «civiltà passate e residui di razze» si fondono in un «solo colore d’oblio»; e nelle sue favole ha anticipato «tutte le angosce della vita moderna e le più catastrofiche fantasie sulle vicende» della Storia. In questa luce l’Acropoli è «il sentimento d’una stagione scomparsa per sempre coi suoi segreti», ma anche il ritrovamento del «tempo felice d’una vita anteriore».

Il frutto maggiore dell’Alvaro inviato speciale all’estero è da indicare, però, in I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica (1935), compiuto da un osservatore che percepisce umanisticamente la spaventosa portata dei pericoli ìnsiti nello statalismo totalitario. Alvaro era affascinato dalla realtà di un popolo immenso, che tentava una sorta di mutazione genetica dei propri caratteri (unificare le entità e le identità molteplici del coacervo di popoli che si raccoglievano in quello smisurato territorio). Tra la primavera e l’estate del 1934 gli era stata data la possibilità di percorrere la Russia europea, sempre per conto della «Stampa», e di inviare una serie di ventuno corrispondenze, che venivano l’anno successivo raccolte in volume.

Il punto di vista dell’osservatore Alvaro era dichiarato senza ambagi nel capitolo ultimo, «Significato del fatto sovietico»: «Ho la debolezza di credere ai valori della civiltà in cui sono nato e di cui mi sono nutrito; so che l’Occidente [...] di utopie antiumane ha fatto strumenti di civiltà umana». Ma era una pregiudiziale umanistica che non indulgeva mai alla nostalgia del passato («non v’è stato un solo momento in cui abbia rimpianto la vecchia Russia») e che gli consentiva, soprattutto, di percepire lucidamente tutta la spaventosa portata dei pericoli e delle degradazioni che erano insiti nel sistema sovietico (indimenticabili le pagine sulla gente ridotta a «tritume d’uomini», in Ucraina, e destinata a morire di fame).

Alvaro vede l’Urss minacciato dall’atrofia delle facoltà creatrici: il conformismo, la programmazione coercitiva di ogni attività della vita e dello spirito fanno sì che sia considerato come un fenomeno degenerativo ogni individuo che si distacchi dalla massa, quando invece il problema più acuto del secolo è quello di «conciliare l’uomo e la massa. È innegabile che la Russia «vada verso condizioni materiali di vita migliori che sotto gli zar»; ma è altrettanto vero che la soffocante dittatura della classe politica ha ridotto a «favola» l’utopia di una società senza più classi (vi impera «un così rigido assetto di classi quale noi non sogniamo neppure») e il mito «del dominio dei produttori del lavoro». La Russia ha per deità la tecnica e ha bandito ogni «libertà di coscienza, di arbitrio e senso di sé».

Tra la fine di marzo e l'aprile del 1937 Alvaro ebbe modo, da inviato dell'«Omnibus» di Longanesi, di tornare nell’Unione Sovietica, in occasione del ventennale della rivoluzione e delle purghe staliniane. Nelle cinque corrispondenze le linee si fanno perentorie, i giudizi si incrudiscono, la condanna etica si arroventa. È una nuova, decisiva riflessione sulla dittatura e sul suo potere di penetrare e corrompere i fondamenti stessi dell'umano. Tre anni appena sono passati dal lungo viaggio del ’34, che aveva portato Alvaro da Mosca a Stalingrado, dal Caucaso all'Ucraina, ma l'occhio attento del giornalista-scrittore vi percepisce mutamenti di basilare importanza, a cominciare dall'edilizia pubblica, in cui appare chiaro un ritorno all'architettura neoclassica, all’uso delle colonne e del marmo. Altrettanto percepibile è il riflusso in ambito letterario: Puškin risponde alle esigenze attuali della gioventù, così come Dostoevskij, il grande rinnegato di prima. E ancora più marcato è il ritorno nell’alveo matriarcale della famiglia, in cui la donna, che rappresenta la tradizione etnica della Russia, ha ricostituito il suo regno, dopo averlo distrutto nella pratica dell’amore libero.

La parziale palinodia operata sui dogmi dell’economia marxista ha mutato profondamente l’aspetto di quest’enorme paese. Il riversamento sulla piazza interna dei prodotti agricoli e, in parte, anche industriali, ha reso smaccate le distinzioni di classe. I nuovi ceti dominanti sono spietati e le divisioni sociali sono rigide, senza contatti e mediazioni. Il giudizio di Alvaro, sul profilo di questa nuova società, è perentorio: chiusa autarchicamente in sé stessa, crede di essere antimperialista ed antiborghese, ma non è alternativa al capitalismo perché «il sovietismo ha abbandonato sulla sua strada la pratica del marxismo».

Questi mutamenti strutturali sono sfociati nella fenomenologia del terrore, che la nuova fase della dittatura staliniana ha inaugurato con i processi del gennaio 1937, facendo registrare quattrocentomila morti e portando a ventiquattro milioni (secondo le stime diffuse dalla propaganda antisovietica e recepite da Alvaro) il numero di coloro che erano scomparsi a partire dallo scoppio della rivoluzione. I processi sono divenuti il momento decisivo di una coazione psicologica da esercitare nei confronti della popolazione: di qui la preparazione maniacale della ‘rappresentazione’ processuale, preparata e pilotata in ogni minimo particolare, secondo un’implacabile regia del terrore.

Alvaro ha avuto la fortuna di ripensare l’Urss in un momento decisivo della sua storia, denunziando con impietosa coscienza civile l’oltraggio alla dignità umana. La spinta polemica talora travalica sull’oggettività dell’osservatore, volto a dimostrare l’insussistenza del mito rivoluzionario di una società senza più classi e privilegi; e ciò non si contrapponeva, di certo, alla propaganda ideologica del regime fascista. Al tempo stesso, però, è da evidenziare che questo reportage rappresenta un momento decisivo della riflessione alvariana sulle società totalitarie e, soprattutto, del suo distacco dalle larvate compromissioni con il potere fascista: un movimento di distanziazione che ha inizio proprio con il romanzo, L’uomo è forte, ispirato da queste corrispondenze di viaggio.