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19/11/2025 ore 09.20
Leggendo Alvaro insieme

Nel cuore arcaico di Corrado Alvaro: metamorfosi, memoria e smarrimento tra le pagine de “L’amata alla finestra”

La raccolta del 1929, compatta e simbolica, racconta il trauma dell’incontro fra mondo ancestrale e modernità attraverso figure sospese tra mito, infanzia e perdita, fino alla parabola conclusiva di Bruno, giovane che tenta di reinventarsi attraverso un amore soltanto immaginato

di Aldo Maria Morace

È un periodo tormentato, quello che Alvaro si trova ad affrontare dopo la chiusura, per decreto fascista, del quotidiano Il Mondo, dove lavorava da redattore. Mentre il matrimonio con Laura Babini evidenzia crepe vistose, e cresce sempre più l’ostracismo del regime nei suoi confronti, per vivere lo scrittore deve spendersi in una serie di febbrili collaborazioni giornalistiche («La Fiera letteraria», «L'Idea nazionale», «L'Italia che scrive», «Le Grandi Firme»), che hanno come sede privilegiata «La Stampa». Nel quotidiano torinese vengono stampate, fra il 1927 e il ’28, quasi tutte le quindici novelle poi confluite in L'amata alla finestra (1929), di ambientazione paesana o comunque meridionale. Alvaro le ordina a coppie per affinità tematica, all'interno della raccolta, con un'unica necessitata eccezione (il trittico di La corona della sposa, Facce nascoste, Viaggio di nozze a Napoli, accomunato dall’elemento del matrimonio, realizzato o mancato, con l’innescarsi di aspre rivalità paesane o di memorie familiari).

L’amata alla finestra ― soprattutto se la si legge nella strutturazione iniziale del 1929 ― possiede una compattezza di linee e di sviluppi che si perde nell’edizione del ’53, ampliata con l’immissione di tre novelle da Misteri e avventure e di altre (e più numerose) prelevate da La signora dell’isola (ambedue pubblicate nel 1930). La raccolta è incardinata sul motivo dominante di questa fase alvariana, la perturbazione prodotta nel mondo arcaico dall’urto ― alterante, mortifero ― con la civiltà evoluta o dall’innesto disadattato in essa. Parte sempre da dati realistici, talvolta apparentemente grezzi, che poi lievitano e si trasformano sempre in simboli o, addirittura, in dimensione mitica (si veda, ad esempio, Ermafrodito): perché «narrare realisticamente non è più possibile», secondo una preziosa indicazione di Alvaro, più volte formulata.

I personaggi sono colti per linee essenziali, nei momenti culminanti che lasciano scoprire il passato e intuire l’avvenire. Il tessuto lirico di immagini e di similitudini, che non di rado gonfia ed appesantisce la scrittura alvariana, giunge qui a una felice misura espressiva; e si modula in una voce assorta di echi, che risale da profondità lontane ― nello spazio e nel tempo ― ed è screziata sapientemente dal ricorso all’inespresso e all’intuitivo.

Nell’attacco della novella iniziale, Ritratto di Melusina, appare un io narrante che, «sebbene non ricordi quasi più le passioni della [sua] terra», pure conserva verso di essa «una solidarietà carnale»: un emigrato che da lontano rivive quel mondo, magari mediante un oggetto che lo ricongiunge ad esso, ma sempre alla luce dell’esperienza dolorosa di un’altra realtà. È una presenza ― questa dell’io narrante ― che si irradia per tutta la raccolta, pur se emerge ad intermittenza e con modalità diverse: ora agendo all’interno della narrazione, ora dissolvendosi nella rievocazione dopo averla introdotta.

Nella novella di Melusina la perturbazione del microcosmo arcaico è provocata da un pittore straniero, che obbliga la giovane donna a farsi ritrarre. L’esile spunto si arricchisce di valenze ancestrali: Melusina «piange una morte», sentendosi violata dalla creazione di un «doppio di sé stessa», «sposa mistica di uno che l’aveva rapita»; ed il rovinio del suo mondo interiore si rispecchia nel disfacimento del suo paese, in cui era rimasta la sola immagine pura della vita e della bellezza.

Nel dittico di Cesarino (Il nipotino; Il nemico) il leit-motiv della separatezza e del contatto tra l’arcaicità e la modernità è orchestrato stupendamente attraverso il mondo dell’infanzia: lo straniero è un bambino che giunge al paese per un breve ritorno del padre. Con magrezza ed intensità di segni, che trasformano il reale in simbolo, Alvaro coglie l’immobilità del mondo d’origine (la nonna «greve nelle sue vesti, immobile e necessaria come il cestone del pane e il desco») e la diffidenza iniziale dei nonni verso il frutto anche di un’altra razza, seguita da un progressivo disgelo. E a sua volta il bambino si apre al «riso elementare dei ragazzi dei campi», che si fanno asservire dal ragazzo venuto da fuori («Il nemico»), mostrando nel gioco della guerra la gerarchia delle razze e delle classi e il male della Storia.

L’infanzia, come categoria dell’umano, ritorna in Fuga, con Carletto che ― dopo una breve vacanza al mare ― tenta di fuggire da casa per la paura, crescendo, di divenire come il padre, di somigliare «a quella fatica eterna, [...] come se vivendo si fosse scordato di vivere». Un uccidere il padre dentro di sé, per poter raggiungere una propria identità: un contrasto generazionale fra chi tende alla emigrazione e chi invece rimane attaccato alla roccia d’origine. È una fuga vitale ― e lacerante ― da un padre troppo forte, come nel caso del figlio pescatore di L’aquila di mare. Qui il motivo dell’albatro ferito, che è di Baudelaire, viene ripreso in chiave paesana: il padre dà con ferocia l’uccello in pasto ai cani, per la volontà odiosa di infrangere le scelte alternative del figlio e di riaffermare una brutale visione dell’esistenza, che non vede scampo tra l’essere vittima o carnefice.

Rimanere al paese, dopo essere stati tentati dall’ignoto, identificando la sua immutabilità con la «verità vera e sicura del mondo», è però regressione (Alfabeto), rinunzia definitiva a maturare o a vivere (La corona della sposa) e, soprattutto, soffocazione esistenziale. Come avviene nel perfetto esito espressivo di La donna di Boston: una presenza bionda, dissonante in un «mondo decrepito», ma cancellata nella sua diversità attraverso la violenza di una omologazione nella prigionia paesana.

Duro è anche il prezzo pagato dai profughi per aver tentato l’innesto nella civiltà evoluta: la solitudine dell’emigrante che attende da quindici anni la venuta della famiglia (Il marito); o il disadattamento dello studente inurbato, Giustino, che si sente addosso tutte le colpe degli uomini (Adolescenza). Lo sradicamento dell’io narrante di Ermafrodito scaturisce dall’avere infranto l’incantesimo della strega-levatrice, teso a non farlo andar via. E ora ― pur consapevole della caduta dei miti giovanili ― l’io che rivive il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza soffre per la sua «incapacità a vivere nel mondo», per il suo essere «un’immagine fuori del tempo, vivo ricordo dei mondi trascorsi, qui, come in una stretta prigione».

È la penultima novella della raccolta: e si è già nella ormai prossima dimensione di Gente in Aspromonte (1930). In apertura a Ermafrodito ― che racconta splendidamente una vicenda di metamorfosi nella compagna di giochi (da fanciulla a ragazzo) ― appaiono ripetuti richiami al propagarsi del mito classico nell’immiserito presente della Calabria magnogreca. Dove tutto è rimasto immobile da secoli e secoli, ancora «vivono gli antichi sentimenti, o la loro fatalità. […] Qui dove le tracce del passaggio degli uomini sono distrutte, la storia dell’uomo, la sua razza e le sue passioni sono più vive che nei monumenti».

C'è un legame da mettere in luce fra Ermafrodito e l'ultima novella, quella che dà il titolo alla raccolta; ed è anche un esempio di come Alvaro, nella successione dei testi, lega l'uno all'altro. L'amata alla finestra racconta (ed è un capolavoro di narrazione breve) un’altra vicenda di metamorfosi, quella di Bruno, studente inurbato, povero e svogliato, che inventa la realtà di un amore, sperando «di potersi da un giorno all'altro mutare in una cosa diversa, di poter fiorire come una pianta». È la vicenda eterna, mitica, del crescere per divenire uomo; e Bruno la vive intrecciando un idillio adolescenziale ― soltanto visivo ed epistolare ― con una ragazza che si affaccia alla finestra di fronte. Le lettere, anche erotiche, vengono intercettate; la finestra non si apre più; e la padrona di casa lo consola abbracciandolo. Rimane potentemente nell’intuitivo ciò che avverrà dopo, quando quella donna farà conoscere a Bruno l’eros carnale.