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05/11/2025 ore 12.14
Venti di comunicazione

Cambiare linguaggio per cambiare cultura, la comunicazione sociale scudo contro la violenza

A Reggio il 15 novembre esperti, psicologi, istituzioni, forze dell’ordine e testimoni si confronteranno per capire cosa non funziona e cosa deve cambiare. L’incontro organizzato dall’Associazione “Jole Santelli” e dal network LaC

di Luigi Vircillo

La violenza sulle donne continua a riempire le cronache. Ogni volta sembra la stessa storia: una denuncia, una richiesta di aiuto, minacce chiare, e poi nessuno interviene sul serio. L’ultimo femminicidio ha mostrato ancora una volta quanto sia fragile la protezione: la ragazza aveva detto di avere paura, di essere minacciata di morte, eppure è rimasta da sola. E quando una donna rimane sola in quel momento, spesso non ha più un domani.

Questo però non significa che la violenza esista solo da un lato. Anche gli uomini, quando subiscono abusi psicologici o fisici, vengono spesso derisi, minimizzati, considerati deboli. In molti casi preferiscono tacere. Perché? Per paura del giudizio, per vergogna, o perché nessuno li prende sul serio. Riconoscere anche queste situazioni non toglie niente alle battaglie delle donne. Anzi. Vuol dire combattere ogni forma di abuso, senza competizioni.

A complicare tutto c’è il “Codice Rosso”, una legge importante ma che a volte viene attivata senza motivo reale, caricando inutilmente il sistema e rallentando chi ne ha bisogno davvero. Altre volte invece non viene attivato quando servirebbe, e quelle omissioni pesano come mattoni sul cuore delle famiglie. È una giustizia a scatti: veloce con chi non serve, lenta quando è questione di vita o di morte.

Negli scorsi giorni si è parlato molto delle dichiarazioni di Belén Rodriguez. Lei negli anni ha denunciato revenge porn, violenze psicologiche, pressioni mediatiche. Situazioni pesanti che hanno acceso discussioni importanti. Ma poi, ospite in tv, ha raccontato in tono ironico di essere “aggressiva e manesca” con i suoi ex, dicendo che “De Martino è quello che ne ha prese di più” e raccontando di aver lanciato anche un cactus contro un fidanzato. Tanti sui social si sono arrabbiati, non tanto per il suo passato, ma per la leggerezza nel parlare di un gesto violento.

Altri hanno risposto dicendo che una donna che picchia non è paragonabile a un uomo che picchia, per via della forza fisica. Questo è vero fino a un certo punto: il contesto è diverso, ma la violenza non diventa folklore solo perché parte da una donna. Ridere su queste cose rischia di normalizzare comportamenti tossici e far vergognare gli uomini che subiscono. Il messaggio deve essere uno solo: chi ama non ferisce, non umilia, non colpisce. Da nessuna parte, per nessun motivo.

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E poi ci sono storie che non arrivano ai talk show ma che fanno paura solo a leggerle. La sindaca di Gioia Tauro, Simona Scarcella, da oltre due anni vive sotto stalking. Ha detto di temere per la propria incolumità e quella della sua famiglia. L’uomo che la perseguita è stato ammonito, ma non ha rispettato nulla. Lei continua a vivere nella paura. E qui viene spontanea una domanda: se una rappresentante dello Stato non riesce a sentirsi protetta, cosa può sperare una persona comune, senza ruoli pubblici e senza visibilità?

È per reagire a questo clima che l’Associazione “Jole Santelli” e il network LaC hanno organizzato un grande evento il 15 novembre a Reggio Calabria. Esperti, psicologi, istituzioni, forze dell’ordine e testimoni reali saliranno sullo stesso palco per capire cosa non funziona e cosa deve cambiare. Ci saranno donne sopravvissute, madri ferite e figure istituzionali che ogni giorno vedono il volto vero della paura. Da questo incontro nascerà un manifesto da portare alla commissione parlamentare. Un documento concreto per evitare che qualcuna resti sola. Io ho curato la comunicazione di questo evento, lavorando sulla responsabilità sociale delle parole e sull’importanza di un linguaggio che non lasci nessuna vittima nell’ombra.

E mentre parliamo di leggi, c’è un’altra arma decisiva: la comunicazione sociale. Le parole fanno cultura. Se chiamare “raptus” un femminicidio lo fa sembrare un momento di follia, la realtà è che spesso c’è un percorso: controllo del telefono, gelosia ossessiva, isolamento, umiliazioni. Se i media raccontano la donna come provocatrice, la responsabilità si sposta. Se ridiamo quando una donna ammette di colpire un uomo, facciamo passare il messaggio che “se lo meritava”.

Una comunicazione sana deve: far conoscere i segnali prima del sangue, dare dignità al racconto delle vittime, non spettacolarizzare il dolore, parlare ai ragazzi dove si formano le relazioni, parlare alle famiglie, che spesso vedono e non capiscono, riconoscere chi subisce violenza, indipendentemente dal genere. E deve essere continua, non solo quando c’è una tragedia.

Ma la comunicazione da sola non basta. Servono sistemi che funzionino davvero: più personale formato, protocolli veloci, controlli seri. Una denuncia lasciata senza seguito può uccidere. Un ammonimento ignorato può annientare una vita. Non bastano fogli, servono azioni.
Questa non è una guerra tra uomini e donne. È una battaglia contro la violenza, contro il silenzio, contro l’indifferenza. Chi colpisce perde. Chi denuncia è coraggioso. E chi ascolta è parte del cambiamento.
La società cambierà quando cambierà il modo di raccontare questi fatti. Quando smetteremo di giustificare, ridicolizzare, normalizzare. Quando ogni vittima si sentirà creduta. Quando chi sbaglia capirà che i confini non si superano.

Il futuro è semplice da immaginare: tornare a casa senza paura, camminare senza abbassare lo sguardo, chiedere aiuto senza vergogna, denunciare senza sentirsi giudicati. Il dolore non deve più essere ignorato.
Le parole devono diventare protezione.
La comunicazione deve essere uno scudo, non un circo. È da qui che si parte.
Da una comunità che ascolta.
Da istituzioni che agiscono.
Da un cambiamento culturale che non lascia nessuno indietro.

Buona comunicazione sociale a tutti.