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25/11/2025 ore 12.32
Venti di comunicazione

Sensibilizzare contro la Violenza sulle Donne è anche una questione di comunicazione

Oggi più che mai, raccontare bene serve a vivere meglio. E raccontare la violenza senza paura, senza retorica e senza silenzi è il primo passo per immaginare un mondo che non abbia più bisogno di panchine rosse, scarpe vuote o monumenti che gridano al posto nostro

di Luigi Vircillo

La comunicazione non è solo un mezzo: è un luogo in cui le cose accadono. Nel caso della violenza sulle donne, è spesso il primo spazio in cui un dolore privato diventa consapevolezza collettiva. Ogni 25 novembre lo ricordiamo, ma in realtà il racconto di questa battaglia vive ogni giorno: sulle strade, nei gesti simbolici, nelle immagini che restano incise nell’immaginario pubblico più di qualunque discorso istituzionale.

Negli ultimi decenni, la forza del linguaggio visivo ha cambiato il modo di parlare di violenza di genere. All’inizio erano soprattutto parole: appelli, manifesti istituzionali, numeri di telefono da ricordare. Poi, qualcosa è cambiato. La comunicazione ha iniziato a farsi più immersiva, più artistica, più emotiva. Ha smesso di limitarsi a informare, scegliendo invece di far vivere un’esperienza. Ed è lì che è avvenuta la svolta.

Oggi non serve nemmeno leggere un manifesto per sapere che qualcosa, in una piazza o in una strada, sta parlando di violenza sulle donne. È sufficiente una panchina rossa. È uno degli interventi di guerriglia urbana più diffusi d’Italia: un arredo che diventa memoriale, simbolo di un posto che resta vuoto perché una donna non c’è più. Non urla, non sciocca, non spaventa: è presenza pura, silenziosa, che obbliga chi passa a fermarsi.

Ancora più potente è la storia delle scarpe rosse, nate come atto artistico di Elina Chauvet in Messico e diventate poi un linguaggio internazionale. Scarpe vuote, abbandonate, allineate. Non c’è immagine più semplice e più forte per dire una cosa sola: quella donna non ha più potuto riempirle. In molte città italiane quelle scarpe sono diventate sculture permanenti, opere pubbliche che trasformano un tema drammatico in un simbolo poetico e universale.

In alcuni paesi il messaggio diventa addirittura monumentale. A Guadalajara, in Messico, l’“Antimonumenta” – una grande scultura viola e metallica – è un grido fisso nel cuore della città contro i femminicidi. Una presenza che non celebra, ma denuncia; non consola, ma sveglia. E poi ci sono gesti che ribaltano gli schemi: come “Walk a Mile in Her Shoes”, la manifestazione in cui gli uomini sfilano in tacchi rossi. Un’immagine ironica, potentissima, che riesce dove molte campagne falliscono: spingere gli uomini a immedesimarsi, almeno per qualche metro, nel dolore altrui.

In Spagna, invece, il simbolo è diventato un cartellino rosso. “Saca tarjeta roja al maltratador”: un gesto semplice, quotidiano, che tutti conoscono grazie al calcio. Uno strappo netto: qui si ferma la violenza, non si accettano scuse.Sono azioni diverse, ma tutte hanno un punto in comune: riportano la lotta contro la violenza sulle donne nel mondo reale, nello spazio urbano, nella vita di ogni giorno. E questo ha cambiato tutto.

Per molto tempo la comunicazione su questo tema è stata didascalica, quasi scolastica: informare, spiegare, dire cosa fare. Oggi invece lavora sulle emozioni, sulla relazione tra ciò che si vede e ciò che si sente, sull’impatto immediato. È passata: dall’allarme al coinvolgimento, dalla cronaca al simbolo, dal “parliamo di violenza” al “parliamo di cultura”. Le campagne moderne non cercano solo di denunciare un crimine: vogliono cambiare mentalità, ribaltare narrazioni tossiche, spostare lo sguardo dalla vittima alla responsabilità di chi guarda. Perché la violenza nasce anche dal linguaggio, dalle rappresentazioni, dalle frasi normalizzate. E solo una comunicazione consapevole può scardinarle.

La verità è che la comunicazione non è un accessorio in questa battaglia: è un’arma. Può ferire – quando normalizza, banalizza, giustifica – oppure può proteggere, educare, far crescere. La differenza la fanno i simboli, le immagini, i racconti che decidiamo di lasciare alle generazioni future. Quei racconti creano cultura. E una cultura che celebra il rispetto e riconosce la dignità delle donne è il primo vero antidoto alla violenza.

Per questo la Giornata contro la Violenza sulle Donne non è solo un appuntamento nel calendario: è un’occasione per misurare quanto la comunicazione è riuscita a trasformare il nostro modo di vedere, interpretare e affrontare questa ferita sociale. Oggi più che mai, raccontare bene serve a vivere meglio. E raccontare la violenza senza paura, senza retorica e senza silenzi è il primo passo per immaginare un mondo che non abbia più bisogno di panchine rosse, scarpe vuote o monumenti che gridano al posto nostro. Buona comunicazione sociale a tutti.