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06/12/2025 ore 19.25
Sanità

Il riconoscimento di Stanford e la sfida nella sanità calabrese: il professor Pata racconta il suo percorso e il futuro della chirurgia

Il medico e docente dell’Unical, inserito tra i Top 2% Scientists, riflette sull’evoluzione della professione: robotica, Intelligenza artificiale, formazione avanzata e sfide in un sistema sanitario regionale che sta cambiando

di Ernesto Mastroianni

Il professor Francesco Pata, chirurgo e docente all’Università della Calabria, è tra gli studiosi italiani più citati al mondo secondo la Stanford University. Con un percorso che si è snodato tra Italia ed Europa, un’intensa attività di ricerca e un forte impegno nella formazione dei giovani medici, Pata è oggi una delle figure più dinamiche della nuova scuola chirurgica calabrese. Dirigente medico nell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Generale dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza. In questa intervista racconta il ruolo delle esperienze internazionali, l’impatto delle tecnologie emergenti, la lezione della pandemia e il valore della storia della medicina.

Prof. Pata, il suo percorso professionale si è sviluppato tra Italia ed estero: quali sono state le esperienze che più hanno influenzato il suo modo di fare chirurgia?
«Sicuramente le esperienze all’estero, nel Regno Unito e in Spagna, hanno rappresentato un valore aggiunto nella mia crescita professionale: ho potuto realizzare interventi chirurgici, con approccio tradizionale e mininvasivo, difficili da apprendere per un giovane in Italia, ho appreso nuove lingue e conosciuto sistemi sanitari con una diversa organizzazione. Queste esperienze hanno evitato quella tentazione all’autoreferenzialità di chi è cresciuto sempre nello stesso ambiente. Ma anche le esperienze in Italia sono state cruciali: penso a quella da specializzando presso l’Ospedale di Reggio Emilia, dove ho effettuate le mie prime colecistectomie laparoscopiche, in un tempo in cui, in Italia, spesso era il chirurgo cinquantenne a praticarle per la prima volta, o quella di oltre 6 anni in Lombardia, dove ho acquisito importanti competenze in chirurgia colorettale e d’urgenza, apportando in loco delle migliorie legate alle mie esperienze all’estero».

La chirurgia mininvasiva e le nuove tecnologie stanno cambiando radicalmente l’approccio al paziente. Quali innovazioni ritiene davvero decisive nei prossimi anni?
«L’integrazione tra I sistemi robotici in uso con sistemi di intelligenza artificiale e di realtà virtuale renderanno la chirurgia sempre più precisa e replicabile: oggi gli specializzandi posso fare esperienza utilizzando dei simulatori prima di entrare in sala operatoria, riducendo lo stress e migliorando l’apprendimento; il chirurgo formato potrà, in un prossimo futuro, operare, vedendo sovrapposta, durante l’intervento, all’immagine del campo operatorio, quella della TAC o degli organi ricostruiti del paziente, consentendo una chirurgia di precisione, con un miglioramento dei risultati e un grande beneficio per i pazienti. I sistemi di telemedicina consentiranno sempre di più di monitorare e valutare il paziente nel postoperatorio da remoto, riducendo costi e disagi, specie per coloro che hanno delle disabilità o vivono in territori distanti dagli ospedali, cosa comune in Calabria».

Lei è stato coordinatore italiano del primo studio globale sui pazienti Covid positivi sottoposti a intervento chirurgico, pubblicato su The Lancet: come è cambiata la chirurgia dopo quella stagione così difficile?
«Sicuramente la pandemia ha stimolato la ottimizzazione di percorsi chirurgici, favorendo laddove possibile l’utilizzo di protocolli di recupero postoperatorio rapido, la cosiddetta ERAS, per la dimissione precoce o l’esecuzione in regime di day surgery o di degenza breve per tutti gli interventi compatibili con tali regimi, in modo da lasciare spazio e posti letto a interventi di chirurgia maggiore, come quella oncologica. Quella stagione, che oggi sembra così lontana, ha visto un enorme sforzo di tutti i medici, non solo dei chirurghi, per fronteggiare l’emergenza, spesso in situazioni di carenze di organico e dei mezzi di protezione. Tuttavia, finita l’emergenza, il grande sforzo dei medici, gli “eroi” acclamati nei momenti più bui della pandemia, è stato disconosciuto dalla politica e dalla società: le promesse di miglioramento degli stipendi e della qualità del lavoro non sono stati rispettati e fenomeni di criminalizzazione della professione hanno favorito episodi di intolleranza e aggressione, mettendo in ombra quelle migliaia di medici, che, ogni giorno, con sacrificio, producono grandi risultati, in un sistema sanitario con risorse sempre più scarse. Il risultato è che oggi quasi la metà dei posti di specializzazione in Italia in Chirurgia generale, un tempo ambita, non vengono assegnati: i giovani preferiscono specializzazioni più remunerative, con minor rischi medico-legali e con una migliore qualità della vita. È il momento di migliorare le condizioni di vita e professionale dei chirurghi e degli altri professionisti dell’emergenza prima che sia troppo tardi».

Ha guidato un team internazionale nello studio della figura di Bruno da Longobucco, un grande chirurgo medievale calabrese: cosa l’ha spinta a esplorare la storia della medicina e cosa possiamo imparare oggi da quei pionieri?
«Sono sempre stato appassionato di storia e la storia della chirurgia ha rappresentato, per me, il convergere di 2 passioni con diversi vantaggi. Innanzitutto interessarsi di storia significa conoscere e valorizzare le proprie origini e il proprio territorio: Bruno da Longobucco è stato uno dei fondatori dell’Università di Padova e il primo chirurgo accademico del Medioevo. Tuttavia quando nel 2019, in occasione di un evento a Longobucco, ricevetti in dono dei libri sul personaggio, mi resi conto che Bruno era stato trascurato in molti testi di storia della Medicina, specie all’estero, ed era sconosciuto anche alla maggior parte dei calabresi. Ho deciso, pertanto, alla guida di un gruppo internazionale di ricercatori, di scrivere il primo articolo scientifico in lingua inglese su Bruno, che oggi, grazie al supporto economico del comune di Longobucco, può essere scaricato gratuitamente on line in tutto il mondo. Utilizzando un formato agile, ma completo e illustrato, abbiamo creato uno strumento che consente a chiunque di avvicinarsi alla vita e le opere di Bruno da Longobucco. Ma la conoscenza della storia è un importante monito per il presente. Quando agli inizi degli anni ’80 il ginecologo Kurt Semm presentò i primi casi di appendicectomia laparoscopica, oggi la tecnica chirurgica di riferimento nel trattamento dell’appendicite acuta, i suoi risultati furono accolti con scetticismo, ironia o franca ostilità, tanto che qualche chirurgo illustre ne suggerì la radiazione, definendo la tecnica pericolosa e “ridicola”. Idem quando nel 1987, il chirurgo francese Francois Muret, effettuò la prima colecistectomia laparoscopica. La storia dei grandi pionieri della storia della chirurgia ci insegna la grande solitudine che ha segnato i primi passi di molti di questi personaggi e di come le novità facciano insorgere resistenze basate su rendite di posizione e consuetudine. Un monito a non considerare ogni verità scientifica immutabile, ma sempre potenzialmente perfettibile o criticabile alla luce dei nuovi dati della scienza».

Nel 2025 è stato inserito nella lista mondiale dei Top 2% Scientists della Stanford University: come vive questo riconoscimento e cosa rappresenta per la ricerca chirurgica italiana?
«L’inserimento nella lista Top 2% della Università di Stanford ha rappresentato per me il riconoscimento di tanti anni di impegno, perseveranza e passione per la ricerca, visto che il metodo utilizzato dalla Università di Standford non tiene in considerazione la produttività scientifica tout court del ricercatore, ma in qualche modo ne misura l’impatto sulla base di quanto i suoi articoli sono citati dalla comunità scientifica. Essere presente in questa lista, insieme ad altri 89 docenti dell’Unical, ha significato per il sottoscritto una forma di riconoscenza verso l’Università della Calabria per la possibilità concessami di partecipare alla costruzione di una dei corsi di Medicina più innovativi a livello nazionale. In ambito chirurgico segnala invece un percorso al servizio della scienza per il benessere dei pazienti».

L’Università della Calabria ha deliberato la sua chiamata a Professore Associato: quali sono i suoi obiettivi per la formazione dei futuri medici e chirurghi?
«La mia esperienza all’Università della Calabria è avvenuta sotto la guida premurosa e attenta del Prof. Bruno Nardo, che, forte della sua esperienza all’Università di Bologna e all’estero, si è sempre caratterizzato per la promozione dei giovani e la creazione di un gruppo di chirurghi motivato e competente. Gli obbiettivi sono quindi già tracciati: percorsi di coinvolgimento progressivo degli studenti nelle attività cliniche e di reparto, grazie anche a simulatori e tavolo anatomico in 3D presso l’UNICAL, e formazione a 360 gradi degli specializzandi, che hanno la possibilità all’Azienda Ospedaliera di Cosenza di praticare tutti i tipi di chirurgia, tradizionale, laparoscopica e robotica. Una situazione impensabile solo pochi anni fa».

La Calabria è spesso percepita come una regione complessa dal punto di vista sanitario. Quali sfide e quali potenzialità vede per un sistema che vuole crescere in qualità e innovazione?
«Se penso a quando sono ritornato in Calabria alla fine del 2018, non posso che cogliere dei cambiamenti significativi: la fine del commissariamento ha reso le Aziende sanitarie più attive, il reclutamento dei medici cubani ha consentito di rinforzare l’organico in area critiche come quella della emergenza, evitando la chiusura di Servizi essenziali per la popolazione; l’Università della Calabria ha sviluppato una politica meritocratica di reclutamento di docenti medici, attenta all’impatto sull’assistenza sanitaria: in soli 3 anni sono stati attivati 3 corsi di laurea (Medicine e tecnologie digitali; Infermieristica e Fisioterapia), reclutati oltre 30 docenti in Italia e dall’estero, in servizio presso l’Azienda Ospedaliera di Cosenza, e aperte 11 scuole di specializzazione medica, da cui usciranno nei prossimi anni decine di specialisti che lavoreranno, si spera, nella nostra regione. La sfida principale sarà quella di confermare questo trend positivo, estenderlo e avere uno Stato centrale più attento: un miglioramento dell’offerta sanitaria comporta investimenti e cambiamenti strutturali che richiedono alcuni anni e, magari, anche qualche passività, per dare i propri frutti nel medio termine. I tagli lineari e le politiche draconiane del commissariamento hanno peggiorato l’assistenza senza un miglioramento dei conti: anche in questo caso la storia può, forse, insegnarci qualcosa».

Tra attività clinica, ricerca internazionale e studio storico: qual è il filo rosso che lega tutte queste dimensioni nella sua vita professionale?
«Il padre della medicina antica Ippocrate affermava che “Il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio”, a indicare che la combinazione delle conoscenze mediche con quelle filosofiche, quali la saggezza e l’ampiezza di visione, può dare al medico una competenza più vasta, rendendolo più efficace nel trattare il paziente. L’attività di ricerca apporta, in qualche modo, un approccio filosofico all’attività clinica, mantenendola sempre aggiornata e giudicabile alla luce dell’evidenza scientifica e non della massima “si è sempre fatto così”. Anche il quotidiano dialogo e confronto con colleghi Italiani e stranieri, conosciuti grazie a progetti di ricerca, rappresenta uno strumento eccezionale di crescita professionale, mantenendomi aggiornato sulle innovazioni e tecnologie più recenti e aiutandomi nell’affrontare casi clinici complessi. Infine l’interesse per la storia, oltre a rappresentare la realizzazione di una passione, sviluppa ulteriormente il mio senso critico e di analisi: dagli errori del passato si può imparare molto e dalla biografia dei grandi personaggi del passato si possono trovare spunti e insegnamenti per il futuro, mentendo sempre al centro del proprio pensiero il paziente».