Ritrovare la salute: perché la Calabria ha bisogno di una rivoluzione culturale prima ancora che sanitaria
Abbiamo bisogno di coraggio, di responsabilità condivisa, e di una visione capace di rimettere insieme ciò che ormai da troppo tempo consideriamo separato: la salute e la vita
C'è una parola che negli ultimi anni è scomparsa dal nostro linguaggio quotidiano. È una parola semplice, ma carica di significato: salute. Oggi, quasi senza accorgercene, parliamo sempre e soltanto di sanità. Diciamo "la sanità non funziona", "la sanità va riformata", "la sanità costa troppo". È un piccolo slittamento linguistico, eppure rivela molto di ciò che è avvenuto in Calabria e probabilmente anche altrove.
Proviamo a fermarci un attimo: la salute è un diritto che appartiene a ciascuno di noi. La sanità, invece, è il sistema che dovrebbe garantire quel diritto. Confondere le due cose, usarle come sinonimi, ha finito per offuscare la percezione stessa di questo diritto fondamentale. Ed è proprio da qui, forse, che può iniziare ogni riflessione seria su ciò che viviamo nella nostra regione.
Salute significa anche ambiente, acqua, aria, dignità dei luoghi
Quando smettiamo di parlare di salute, smettiamo quasi naturalmente di considerare tutto ciò che la rende possibile. La salute non abita solo negli ospedali, non vive solo nelle medicine o negli ambulatori. Abita anche, se non soprattutto, nei luoghi in cui viviamo ogni giorno.
Pensiamo all'acqua. In diverse aree della Calabria, molte famiglie convivono con la mancanza di acqua potabile, e per chi la vede fluire dal rubinetto non è sempre cristallina come dovrebbe essere. Tubature vecchie, serbatoi mai rinnovati, reti idriche che si contaminano facilmente. Non è un dettaglio trascurabile. È un messaggio che passa nelle case, nei rubinetti, e arriva dritto alla percezione che abbiamo di noi stessi: forse la mia salute non è davvero protetta.
La stessa riflessione vale per l'aria che respiriamo, per i territori consumati senza criterio, per le aree interne che si spopolano e diventano sempre più fragili. La salute nasce qui, nella quotidianità delle piccole cose delle nostre vite. E se i luoghi che abitiamo non sono salubri, possiamo costruire tutti gli ospedali che vogliamo, dotarli delle tecnologie più avanzate: difficilmente basterà a restituire benessere reale ai cittadini.
Numeri che raccontano fragilità, non colpe
Non è mai semplice parlare di dati quando in gioco c'è la vita delle persone. Ma i numeri, letti con rispetto e senza polemiche, aiutano a capire il contesto in cui ci muoviamo. La Calabria ha un'aspettativa di vita più bassa rispetto alla media italiana. La mortalità evitabile — quella legata a patologie che in altre regioni vengono intercettate e trattate più tempestivamente — è la più alta. La mortalità infantile è quasi doppia rispetto alla media nazionale. Pochissimi cittadini partecipano agli screening oncologici, in particolare per colon-retto e mammella.
Circa un calabrese su quattro si sposta altrove per curarsi, e sei pazienti su dieci con tumore al polmone devono viaggiare per essere operati. I posti letto ospedalieri pubblici sono meno della media nazionale, e l'assistenza territoriale, quella che dovrebbe essere vicina alle persone, entrare nelle case, presidiare i quartieri, è ancora molto debole, soprattutto per gli anziani e per tutte le tematiche legate alla salute mentale, al disagio e alla solitudine. Questi numeri, letti insieme e senza rabbia (se possibile), raccontano una cosa semplice: la salute dei calabresi è fragile. Non solo la sanità. La salute.
Il medico di famiglia che non c'è più
C'è poi un'altra dimensione, meno misurabile ma forse ancora più dolorosa, perché è un’assenza “familiare”, di prossimità: la progressiva scomparsa dell'umanità nella relazione di cura. Una volta dicevamo con naturalezza "il mio medico di famiglia". Oggi, sempre più spesso, ci troviamo davanti a un professionista che — pur con tutta la sua competenza — somiglia più a un consulente sanitario che a quel riferimento umano che era il medico di una volta.
Riceve solo su appuntamento, non sempre riesce, o vuole, garantire visite domiciliari anche quando sarebbe necessario, è costretto a gestire una mole di burocrazia che toglie tempo alla relazione, e spesso rimanda rapidamente alla guardia medica o al pronto soccorso. Sia chiaro: non è colpa dei medici. Anzi, molti di loro lavorano sotto una pressione enorme, con carichi di lavoro che sarebbero insostenibili per chiunque, pochi colleghi e troppe responsabilità. È il sistema stesso che li ha trasformati in ingranaggi di una macchina che deve "processare" una quantità di richieste impossibile da gestire con umanità. La sanità li ha trasformati in chatbot medici tridimensionali, consultabili ma senza empatia e partecipazione nella vita e nella cura del paziente.
Eppure la medicina, quella vera, vive nella relazione. Nel guardarsi negli occhi. Nel prendersi un minuto in più per capire come sta davvero la persona, non solo se c’è un organo malato o una patologia in atto. Questa dimensione umana, non è sentimentalismo, ma parte integrante della cura, va recuperata. Per loro e per noi. Per chi fa un lavoro per una vita che non può vivere come una macchina fredda; per chi ha bisogno di rassicurazioni e cure che non può sentirsi solo e arrivare a rinunciare di chiedere aiuto.
Perché c’è un elemento che merita di essere ricordato. Ogni medico, nel momento in cui entra in questa professione, pronuncia il Giuramento di Ippocrate. Non è solo una formula simbolica: è un impegno morale a “curare ogni paziente con scrupolo e dignità”, a mettere l’essere umano al centro, a non abbandonarlo nella fragilità. Oggi nessuno pretende l’eroismo, né è giusto dimenticare la fatica e lo stress a cui i nostri medici sono sottoposti. Ma quel giuramento non ricorda solo un dovere: ricorda una missione, una vocazione profonda. Una bussola interiore che forse vale la pena ritrovare, per chi cura e per chi chiede cura.
Investiamo in strutture, ma chi si prende cura di chi cura?
Negli ultimi anni si è parlato molto di nuovi ospedali, case di comunità, pronto soccorso più moderni. Sono tutti investimenti necessari, non c'è dubbio. Ma raramente si parla del benessere di chi lavora nella sanità, di chi ogni giorno si prende cura degli altri. La Calabria ha meno infermieri della media italiana. Molti reparti vivono in una condizione di emergenza quotidiana che è diventata quasi normalità. L'età media dei medici cresce, mentre i giovani scelgono spesso di andare altrove. E il burnout, quel logorio profondo che colpisce chi dà sempre senza avere supporto, che abbiamo iniziato a conoscere durante il periodo del COVID, è diffusissimo, anche se raramente se ne parla.
Un ospedale può essere nuovo, luminoso, dotato di tecnologie all'avanguardia. Ma se medici e infermieri sono stremati, senza adeguato sostegno, costretti a turni che sfiniscono, la qualità delle cure ne risente inevitabilmente. Perché la cura non è una macchina che funziona da sola: è una relazione tra esseri umani. E gli esseri umani, per poter dare, devono anche ricevere.
La rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno
Tutto questo ci porta a un'ultima riflessione, forse la più importante: bisogna rimettere al centro la persona. La persona malata, certamente, ma anche la persona che cura. Dietro ogni camice c'è un essere umano che soffre, spera, si stanca, combatte. E dietro ogni letto d'ospedale c'è un essere umano che chiede dignità, ascolto, protezione, tempo. Bisogna tornare a parlare di persone alle persone, la nostra salute dipende da un posto letto, da uno screening in più, da una lista d’attesa più corta, ma tutto passa dalle persone da chi cura, da chi gestisce, da chi organizza.
Recuperare questa dimensione non è nostalgia del passato, che ha generato questo presente. È cambiare paradigma. Significa riconoscere che la salute è prima di tutto un diritto della persona, non un capitolo di bilancio da ottimizzare. Significa comprendere che lo Stato Sociale, il moderno Welfare, non sono ingombri amministrativi o eredità del passato, ma le fondamenta stesse di una società capace di guardare al futuro con fiducia.E forse, proprio perché noi calabresi conosciamo la fragilità meglio di altri, proprio perché la Calabria ha sperimentato sulla propria pelle cosa significa vedere negato un diritto fondamentale, la nostra terra potrebbe essere il luogo da cui parte questa rivoluzione culturale. Una rivoluzione positiva, umana, mite, che metta al centro la dignità delle persone e della loro salute.
Non abbiamo bisogno di polemiche, né di cercare colpevoli. Abbiamo bisogno di coraggio, di responsabilità condivisa, e di una visione capace di rimettere insieme ciò che ormai da troppo tempo consideriamo separato: la salute e la vita. La sanità e l'umanità. Le persone e il loro diritto a essere curate con dignità, vicino a casa, nella loro terra e da persone competenti, preparate e in condizioni di salute ottimali. Perché una società che rinuncia alla salute dei suoi cittadini rinuncia anche al proprio futuro. Ed è un futuro, quello della Calabria, che vale davvero la pena difendere. Insieme.
*Esperto di comunicazione politica