Il giorno in cui la musica cambiò il mondo: 40 anni fa il Live Aid fece battere un solo grande cuore
Dal Wembley Stadium a Filadelfia, Queen, U2, Madonna e decine di star suonarono insieme per combattere la fame in Africa: 125 milioni di dollari raccolti e una lezione di solidarietà che vive quasi mezzo secolo dopo
C’era una volta un pianeta che si fermò per ascoltare. Non un discorso, non una preghiera, non una dichiarazione di guerra. Ma una canzone. Poi un’altra. Poi un’intera giornata di note, di voci, di mani che battevano all’unisono, a migliaia di chilometri di distanza, da una riva all’altra dell’oceano.
Era il 13 luglio 1985, e il mondo si concesse il lusso, raro e necessario, di credere per ventiquattro ore che la musica potesse cambiare il destino delle persone. Non fu un sogno. Non fu retorica. Fu il Live Aid. Nessuno sapeva esattamente cosa sarebbe successo. Nessuno immaginava che quel giorno sarebbe entrato nei libri di storia, non solo della musica. Tutto cominciò mesi prima, con un uomo che non era né una leggenda né un genio, ma semplicemente un cantautore irlandese con troppa coscienza e poca pazienza: Bob Geldof.
Aveva visto un reportage sulla carestia in Etiopia, aveva pianto, si era arrabbiato, poi aveva preso il telefono. Non per piangere ancora, ma per chiamare chiunque potesse aiutarlo a smuovere mari e coscienze. La prima canzone fu Do They Know It’s Christmas?, un piccolo miracolo corale cantato dalla nobiltà del pop britannico. Poi venne la risposta americana, We Are the World, e a quel punto nessuno poteva più fermare la valanga.
Il Live Aid nacque così, come un’utopia organizzata. Due stadi, due emisferi, un unico palcoscenico. A Londra il mitico Wembley Stadium aprì le danze a mezzogiorno in punto, mentre in America il John F.Kennedy Stadium di Filadelfia si preparava a rispondere otto ore dopo, per via del fuso orario. In realtà, era come se fosse lo stesso luogo. Una gigantesca cattedrale laica che conteneva tutto il meglio – e il sogno – della musica mondiale.
Chi c’era? Sarebbe più semplice chiedere chi non c’era. Queen, U2, David Bowie, Madonna, Elton John, Paul McCartney, Led Zeppelin, Bob Dylan, Mick Jagger, Tina Turner, e decine di altri nomi che da soli bastavano a riempire un’intera enciclopedia musicale. Ma nessuno si presentò per vanità: si trattava di esserci, di esserci insieme, per qualcosa di più grande di una carriera o di un disco da promuovere. Era la musica che, per una volta, si metteva a servizio della vita.
Freddie Mercury, in uno dei momenti più memorabili di sempre, si impossessò del palco di Wembley con l’energia di un dio pagano e trasformò un set di venti minuti in una consacrazione eterna. Nessuno
prima o dopo riuscirà mai a reggere il paragone. Accanto a lui, Bono Vox si lanciava in mezzo alla folla per abbracciare una fan: gesto improvvisato, simbolo potente di un’unione che travalicava barriere e barriere.
Nel frattempo, a Filadelfia, Madonna ballava e sudava sotto il sole, ancora agli albori della sua carriera, ma già cosciente del potere di un microfono. Dylan, Keith Richards e Ron Wood formavano un trio improbabile e sgangherato, ma sufficiente per accendere l’entusiasmo. E poi, come in ogni fiaba che si rispetti, ci fu l’eroe romantico e instancabile: Phil Collins, che suonò a Londra nel primo pomeriggio con Sting e Branford Marsalis, poi salì su un Concorde e attraversò l’Atlantico per arrivare in tempo a
Filadelfia e salire di nuovo sul palco accanto a Eric Clapton e ai Led Zeppelin riuniti per l’occasione.
Un’impresa oggi inimmaginabile, resa possibile solo da quella combinazione irripetibile di adrenalina, follia e passione. on tutto fu perfetto. Ci furono problemi tecnici, esibizioni poco convincenti, qualche ego mal contenuto. Ma nessuno se ne accorse. O meglio: non importò a nessuno. Perché il Live Aid non fu uno show come gli altri. Fu la dimostrazione che la musica poteva ancora svegliare le coscienze, unire i popoli, nutrire i bambini, letteralmente. I fondi raccolti superarono ogni previsione: oltre 125 milioni di dollari destinati alle vittime della fame in Africa. Ma forse, il patrimonio più prezioso fu quello invisibile, inascoltabile: la sensazione collettiva che si potesse fare qualcosa, e che la musica potesse essere strumento di cambiamento, non solo colonna sonora del disimpegno.
Quarant’anni dopo, quella favola sembra quasi irreale. Viviamo in un’epoca di streaming e di social, dove la musica è sempre più frammentata, e i grandi ideali sembrano destinati al ridicolo. Ma il 13 luglio del 1985 resta lì, come una fotografia sbiadita ma incorruttibile, a ricordarci cosa accade quando si uniscono talento, volontà e generosità. Non era solo un concerto. Era una scommessa sull’umanità. E, per una volta, vinsero tutti.