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04/11/2025 ore 12.22
Spettacolo

«Terrazza Sentimento»: come la perdizione di Alberto Genovese diventa una docu-serie e mette Milano davanti allo specchio

Tre episodi, l’uso dell’intelligenza artificiale per ricostruire gli interni, le voci delle vittime e la metamorfosi di un uomo che ha incarnato l’ascesa e la caduta del mito tech. In uscita il 5 novembre

di Luca Arnaù

È un’immagine a fare da epilogo: un uomo seduto, lo sguardo ripulito dall’eccesso, quasi svuotato, come se nella sottrazione avesse trovato la sua nuova fisionomia. È Alberto Genovese, tre anni dopo l’arresto, così come appare nello stralcio finale di Terrazza Sentimento, la docu-serie Netflix che debutterà mercoledì 5 novembre e che riapre una storia che Milano aveva archiviato in fretta, forse troppo. Una storia di potere, droga, abuso e fragilità. Una parabola che non appartiene solo a un uomo, ma a una città, a un clima, a un’euforia capace di deformare tutto, persino il senso del limite.

Nessuna agiografia. Nessun racconto autoassolutorio. Gli autori Alessandro Garramone, Davide Bandiera e Annalisa Reggi, con la regia di Nicola Prosatore, scelgono un registro asciutto, documentale, costruito su atti giudiziari, testimonianze, voci dirette e ricostruzioni digitali degli ambienti. L’attico con vista Duomo, dove la notte del 2020 una 18enne fu drogata e violentata, non viene mai mostrato attraverso le immagini originali: l’intelligenza artificiale ricostruisce le stanze sulla base delle fonti processuali, in un percorso narrativo che dichiara la sua intenzione fin dall’inizio. Non spettacolarizzare. Non indulgere. Raccontare, comprendendo l’impatto culturale prima ancora che giudiziario.

Genovese, prima della caduta, era uno che «lavorava sedici ore al giorno», ricordano gli autori. Il simbolo di una Milano «che spacca», come dicevano i lanci pubblicitari e i post motivazionali di un’epoca che confondeva la velocità col talento, la crescita con la felicità, il networking con l’intimità. Imprenditore di punta della scena digitale, pluripremiato, capace di creare e vendere piattaforme, con quell’aura da golden boy che spesso seduce più del merito. E poi, improvvisamente, il crinale: la cocaina, le feste continue, l’idea tossica e pericolosa che tutto sia possibile se puoi permettertelo. La convinzione, tutta contemporanea, che il controllo sia eterno, che il desiderio non debba avere confini.

Ma questa serie non è la biografia di un precipizio individuale. È la radiografia di un sistema. Un ecosistema verticale e ipertrofico, capace di vestire di entusiasmo ciò che era già fragilità, di trasformare in lifestyle comportamenti predatori, di confondere sballo e libertà. «In quel clima, durante il Covid, si sono abbassate le difese», spiega Garramone. Milano come personaggio: la città verticale, scintillante, ambiziosa e affamata, in cui lavoro e divertimento sono due lati dello stesso culto. Dove si produce, si investe e poi si “libera la testa”. Dove la notte diventa competizione tanto quanto il giorno. Finché il confine sfuma e ciò che resta è un vuoto applaudito prima, condannato poi.

Le vittime, oggi, hanno di nuovo un volto e una voce. Non la gogna social che all’epoca provò a sporcarle, colpevolizzarle, zittirle. Nel 2020 molte di loro furono messe sotto accusa da un certo discorso pubblico: insinuazioni, sospetti, vittimizzazione rovesciata. Terrazza Sentimento le riconsegna alla loro dignità, dando parola a un dolore che non è statistica, ma carne e memoria. «Potevano essere le nostre figlie, le nostre sorelle», dice l’autore. Lo ribadisce la psicoterapeuta Stefania Andreoli: non ci sono “ma”. Non ci sono attenuanti sociali per chi approfitta della vulnerabilità altrui.

Lì sta la vera frattura narrativa: la serie non chiede di compatire Genovese, né di demonizzarlo come mostro isolato. Chiede di capire il terreno in cui è germogliato quel potere distorto. Il punto non è se la caduta lo abbia punito abbastanza, ma cosa abbia permesso l’ascesa. E che cosa, in quel tempo e in quella città, abbiamo scelto di non vedere. La cocaina come accessorio di scena. L’abuso come dinamica normalizzata. L’idea che essere “uno che ce l’ha fatta” basti a giustificare ogni eccesso.

Questo racconto non cerca il shock value. Cerca, semmai, la resa dei conti culturale. Il frame finale, quello sguardo disarmato dell’ex re della Terrazza, non è redenzione né assoluzione: è un promemoria. La catarsi non è sua. È della città che guarda. Del pubblico che si confronta con una stagione in cui tutto sembrava possibile e quindi tutto era permesso. Una stagione in cui il successo, se non sorretto da etica e responsabilità, si rivela un deserto in paillettes.

Da mercoledì su Netflix, Terrazza Sentimento non riapre solo un caso giudiziario. Riapre una domanda: cosa succede quando la corsa al successo consuma l’umanità prima ancora di travolgerla? E soprattutto: cosa scegliamo di vedere quando le luci sono accese e il rumore è alto? La risposta non sta nei tribunali, ma negli specchi.