Dalla favola di Curaçao al disastro azzurro: le isole da 150 mila abitanti volano ai Mondiali mentre l’Italia rischia di guardarli dal divano
L’impresa storica dei caraibici rilancia l’incubo degli azzurri: mentre Curaçao scrive la pagina più sorprendente delle qualificazioni, gli italianiiù affondano nella figuraccia con la Norvegia e vedono le porte del Mondiale sempre più strette
Il calcio non smette mai di ricordarci che nulla è scritto e che, spesso, i miracoli abitano in posti che non sappiamo nemmeno indicare sulla carta geografica. L’ultima storia arriva dal Mar dei Caraibi: Curaçao, 150 mila abitanti appena, si qualifica per la prima volta nella sua storia ai Mondiali del 2026. Un risultato che ribalta ogni gerarchia, che riscrive le mappe del pallone e che regala a un’intera isola un giorno da tramandare ai nipoti.
E mentre la magia si compie sotto il sole tropicale, in Italia si fa largo un pensiero amaro: noi rischiamo di restare a guardare. Di nuovo.
L’eco della vergogna norvegese, con quella sconfitta che ha messo a nudo tutti i limiti tecnici e caratteriali degli azzurri, rimbomba ancora. Le combinazioni per arrivare almeno ai playoff esistono, ma il margine è sottilissimo. E l’immagine è impietosa: Curaçao al Mondiale, l’Italia a pregare la statistica.
L’impresa caraibica porta la firma di Dick Advocaat, 78 anni, decano delle panchine europee, che al settimo incarico da commissario tecnico ha deciso di regalarsi una sfida impossibile. L’ha trasformata in realtà con uno 0-0 che ai più può sembrare modesto, ma che per geografia, storia e destino vale come una partita epica. La Giamaica, armata di talento e potenza atletica, è stata contenuta fino all’ultimo pallone. Poi l’esplosione: festa in campo, le lacrime del tecnico, l’isola paralizzata davanti agli schermi.
Con i suoi 150 mila abitanti, Curaçao diventa il Paese più piccolo mai qualificato a una Coppa del Mondo. Una statistica che, letta dall’Italia, assume i tratti della parabola biblica. Noi – 60 milioni di persone, quattro titoli mondiali, un campionato tra i più ricchi d’Europa – a rischiare l’irrilevanza. Loro – una striscia di terra davanti alle coste del Venezuela – a prenotare il volo per Stati Uniti, Messico e Canada.
Le qualificazioni, intanto, hanno regalato altre notti che entreranno nella memoria collettiva. Come quella vissuta a Glasgow, dove la Scozia ha messo in scena una partita da cinema, una delle più folli della storia recente del calcio europeo. Contro la Danimarca non c’era solo in ballo un Mondiale: c’era l’attesa di un popolo, 28 anni senza la vetrina più importante, una generazione cresciuta raccontandosi le gesta del passato.
Ci ha pensato Scott McTominay ad aprire il sipario, con una rovesciata acrobatica che ha mandato in estasi Hampden Park. Poi il botta e risposta: Hojlund su rigore, Shankland di nuovo in vantaggio, Dorgu – ex Lecce – a pareggiare all’82’. Sembrava tutto scritto. Sembrava.
E invece il recupero è diventato leggenda. Prima Tierney per il 3-2. Poi, al 99’, Kenny McLean ha visto il portiere danese fuori dai pali e ha calciato da metà campo. Palla dentro. Pubblico fuori controllo. Scozia al Mondiale, Danimarca ai playoff. Una di quelle serate che diventano identitarie.
Le altre grandi europee passano con meno pathos ma con la solita solidità.
Il Belgio distrugge il Liechtenstein 7-0 con una doppietta di De Ketelaere e un gol di Saelemaekers. La Spagna pareggia con la Turchia e blinda il pass. La Svizzera passeggia sul Kosovo. L’Austria soffre fino al finale ma il pari di Gregoritsch basta a spezzare il sogno della Bosnia e a chiudere la pratica qualificazione.
A livello globale arrivano anche le storie laterali che appassionano: Panama al Mondiale battendo El Salvador, Haiti che torna nella Coppa del Mondo dopo 52 anni, Giamaica e Suriname agli spareggi intercontinentali.
E l’Italia? L’Italia guarda. Guarda e spera che la combinazione di risultati non si trasformi nell’ennesima condanna storico-sportiva. Perché oggi il mondo calcistico corre veloce: Paesi minuscoli emergono, squadre un tempo irrilevanti trovano un’identità, si affidano a tecnici esperti, costruiscono percorsi continui, sfruttano talenti globalizzati. Noi restiamo intrappolati in una narrativa ripetuta: creatività senza concretezza, possesso sterile, fragilità difensive, la percezione costante di poter crollare alla prima difficoltà.
La qualificazione di Curaçao, vista in controluce, è una lezione doppia. Da una parte dice che nel calcio esiste sempre un varco, anche per chi parte da lontanissimo. Dall’altra racconta la decadenza di un sistema che non riesce più a trasformare il proprio potenziale in risultati. Una nazionale che un tempo era sinonimo di affidabilità, oggi vive nel limbo: troppa fatica per segnare, poca personalità nei momenti decisivi, una generazione che alterna sprazzi di talento a pause inspiegabili.
Italia-Norvegia 1-4, Gattuso: «Sconfitta che brucia, chiedo scusa ai tifosi»Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, 150 mila persone stanno organizzando il viaggio più importante della loro storia sportiva. Mentre in Italia si discute, si analizza, si rimuove. Con la sensazione fastidiosa di ritrovarsi davanti al televisore a tifare per altri, mentre gli inni scorrono senza il nostro.
È il paradosso del calcio del 2026: le favole diventano realtà, i colossi rischiano l’estinzione. Curaçao avanza. L’Italia trema. E la classifica – impietosa come sempre – ci ricorda che il Mondiale non aspetta nessuno.