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27/07/2025 ore 18.30
Sport

Il sogno della Serie A: la Calabria raccontata attraverso Catanzaro, Reggina e Crotone

Il calcio come metafora del riscatto sociale in una terra divisa. Dai giallorossi pionieri della massima serie agli amaranto e alla squadra piragorica: come lo sport ha unito una regione spesso lacerata da tensioni e rivalità

di Francesco Gallo

Un pallone che rotola su un campo di calcio può raccontare molto più di novanta minuti di gioco. In Calabria, terra di contrasti e passioni, il calcio diventa spesso uno specchio fedele della società, delle sue ambizioni e delle sue contraddizioni. Attualmente, soltanto il Catanzaro sta mantenendo alta la bandiera di un’intera regione in Serie B. Ma i guai finanziari della Reggina, la sconsiderata gestione societaria del Cosenza da parte del presidente Eugenio Guarascio e le endemiche difficoltà sportive del Crotone, rischiano di bucare definitivamente un pallone già sgonfio da tempo. In una terra dove i tassi di disoccupazione toccano vette drammatiche e l’emigrazione giovanile continua a svuotare interi paesi, il calcio è diventato l’unica scappatoia capace di generare sogni e orgoglio collettivo. Tre squadre, in particolare, hanno rappresentato tre modi diversi di essere calabresi: il Catanzaro dell’establishment che cercava legittimazione nazionale, la Reggina della resistenza contro ogni avversità, il Crotone della periferia che osa sfidare i giganti.

Dove osano le aquile

In principio era il Catanzaro. Alla fine del campionato cadetto del 1971, si realizza finalmente l’ambizioso e lungimirante progetto sportivo di Nicola Ceravolo: le aquile volano in Serie A. Il presidente dei giallorossi, di cui oggi lo stadio porta il nome, ha affidato la squadra a un allenatore pragmatico, il modenese Gianni Seghedoni. La sua mentalità vincente e i gol del prolifico attaccante Angelo Mammì hanno permesso alla squadra di approdare per la prima volta nella sua storia alla massima serie. Secondo il presidente della Regione, il roglianese Antonio Guarasci, «La Calabria ha superato lo steccato dell’inferiorità atavica anche nel calcio». Lo certifica anche un articolo del «Corriere dello Sport», il quale spiega che: «Catanzaro che porta il calabrese in serie A si assume ora anche l’onere di far conoscere la regione ai non pochi italiani che vi scenderanno per la prima volta».

Serie A negli anni di piombo

Il 1971 è stato l’anno di Catanzaro: dalla conquista della Serie A all’ottenimento della sede regionale. L’entusiasmo, però, si mescola alle tensioni che giungono dalla vicina Reggio Calabria. La nomina di Catanzaro come capoluogo e la creazione del polo universitario a Cosenza ha lasciato l’estrema città dell’Italia marina a bocca asciutta. Molti reggini non ci stanno e insorgono al grido fascista di «boia chi molla». Per mesi si verificano scontri, assalti armati e attentati dinamitardi che causeranno undici morti e migliaia di feriti. L’eco della protesta popolare guidata dall’irrequieto Ciccio Franco giunge anche a Catanzaro. Il capo del rione Sbarre ha fatto esplodere la miccia accesa settimane prima dal combattivo sindaco democristiano Pietro Battaglia, il cui comizio in Piazza Italia ha infuocato gli animi dei reggini. La città esplode e la rivolta si tinge di sangue. La prima vittima di questa deflagrazione è proprio un giovane catanzarese, Giuseppe Malacaria. Durante un corteo antifascista in città, muore a causa di un attentato dinamitardo. Alla sua tragica dipartita si aggiunge quella del ferroviere Bruno Labate, caduto sotto i colpi della polizia durante una manifestazione. Come se non bastasse, un gruppo di estremisti di destra provoca il deragliamento di un treno all’altezza della stazione di Gioia Tauro. Nell’impatto muoiono sei persone e ottanta rimangono ferite. La strage, inizialmente presentata come un tragico incidente, si rivela invece come un tassello di un mosaico che fa parte della più ampia strategia della tensione che sta insanguinando l’Italia. A questo punto, il governo tenta di sedare gli animi con una serie di misure per la provincia di Reggio Calabria. Il cosiddetto ‘Pacchetto Colombo’ prevede la costruzione del quinto centro siderurgico italiano e un porto a Gioia Tauro. L’obiettivo è creare 15.000 posti di lavoro. Ma tra sprechi di denaro e speculazioni edilizie, si accumulano ritardi nei lavori. Le avvisaglie dei troppi interessi in gioco emergono a cominciare dal rinfresco della cerimonia, organizzato da un esponente di spicco di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Tra la prima pietra posata dal ministro del Mezzogiorno Giulio Andreotti e l’apertura del porto passeranno vent’anni. Nel 1994 diventerà una delle principali rotte del narcotraffico europeo.

Il miracolo Catanzaro

In questo clima di tensione, il Catanzaro vince la sua prima partita in Serie A. La vittima illustre è la Juventus di Bettega, Anastasi e Causio, che di lì a poco vincerà il suo quattordicesimo scudetto. L’indimenticabile gol porta nuovamente la firma di Mammì, l’uomo del destino dei giallorossi che, a fine campionato, siglerà un’altra storica rete nientemeno che al Santos di Pelè! Per Antonio Ghirelli, la vittoria delle aquile sulle zebre «trascende il suo valore concreto per tradursi in una patente di nobiltà sportiva per una squadra, per una società, per un ambiente». Negli anni successivi, il Catanzaro si trasforma in una yo-yo team, come dicono gli inglesi. Retrocessioni in Serie B e promozioni in Serie A si alternano, anno dopo anno. Ilvuoto di Angelo Mammì è stato colmato dal giovane Massimo Palanca, specializzato nell’impossibile ‘gol olimpico’, ovverosia direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Questa sua spettacolare attitudine strega la Roma il 4 marzo 1979, un’impresa arricchita da una strabiliante tripletta. La Lupa viene travolta, il Catanzaro entra nella leggenda. Anche nel campionato successivo, Palanca trascina i giallorossi a suon di gol. E per una manciata di minuti, a fine ottobre le aquile volano al primo posto in classifica. Il nuovo presidente, il vulcanico Adriano Merlo, costruisce una squadra da sogno con l’innesto di giovani promesse: Edi Bivi, Carlo Borghi e Massimo Mauro. Le nuove leve seguono i dettami dell’intransigente allenatore Tarcisio Burgnich. La squadra è rimasta aggrappata alla massima serie in virtù del primo grande scandalo nella storia dello sport italiano: il Totonero. Le camionette della guardia di finanza e le volanti della polizia hanno fatto irruzione dentro e fuori dagli stadi. Finiranno in manette una ventina di giocatori coinvolti in uno stupefacente giro di scommesse clandestine. Il Catanzaro, però, dimostra di meritarsi la fortuna. Sono anni di gloria pura. Il promettente Edy Bivi, arrivato per non far rimpiangere Palanca, segna dodici reti alla sua prima stagione in A. Una su tutte alla Roma, capace di far imbestialire persino Alberto Sordi che guarda la partita nel film Io so che tu sai che io so. Nel 1982 i giallorossi raggiungono addirittura le semifinali di Coppa Italia. Il Catanzaro sconfigge in casa l’Inter guidata da tre prossimi campioni del mondo: Bergomi, Oriali e Altobelli. Solo la regola dei gol in trasferta premia i nerazzurri che, di lì a poco, conquisteranno il trofeo ai danni del Torino. Sarà l’ultimo acuto di una squadra che ben presto finirà ai margini del calcio italiano, nei bassifondi della serie C2.

Reggina senza corona

Con la favola del Catanzaro il calcio diventa metafora di una Calabria che vuole emergere, che non si arrende al destino di ultima della classe. Per un breve periodo, sembra il Cosenza la squadra designata a raccogliere il testimone del Catanzaro. Ma i lupi della Sila sfiorano il sogno della Serie A, senza mai toccarlo davvero. Soprattutto nel 1992, le speranze si infrangono a Lecce. «Passano gli anni, ma otto son lunghi», cantava Celentano ne Il ragazzo della via Gluck. Accade lo stesso anche in Calabria, perché ci vuole il 1999 per rivedere una squadra calabrese in Serie A. Ci riesce la Reggina, guidata dal pragmatico Franco Colomba. Al debutto, il destino regala subito una sfida impossibile: la Juventus al Delle Alpi. Ma l’incontenibile Mohamed Kallon, numero 2 sulle spalle ma istinto da bomber puro, segna un gol storico di testa. Che notte quella notte. Ai gol di Kallon, si aggiungono le giocate dei giovani Pirlo e Baronio, ma anche dell’irruento Bruno Cirillo, 17 anni e una grinta daveterano. Insopportabile per gli avversari ma beniamino dei tifosi, diventa il simbolo di una squadra che fa dell’intensità la sua arma migliore. E poi, come dimenticare l’incredibile gol nei minuti di recupero segnato dal portiere Massimo Taibi all’Udinese? Un momento indelebile per tutti i tifosi reggini.

Dio salvi la Reggina

Nell’estate del 2006, l’immagine della Reggina viene sporcata dal disonore e dall’imbarazzo internazionale scaturito dallo scandalo Calciopoli. Alcune intercettazioni telefoniche della Procura di Napoli hanno rivelato un vasto progetto volto a influenzare gli arbitri e i risultati della Serie A, illecito di cui si è macchiato anche il presidente Lillo Foti. È lo scandalo più grave della storia del calcio italiano. L’opinione pubblica è sbigottita, per i tifosi dello stivale è l’amara scoperta che il gioco più amato e popolare non è diverso dal Paese che lo esprime. Anche Reggio vive settimane d’apprensione. A processo concluso la squadra viene condannata a scontare quindici punti di penalizzazione nel campionato di 2006-07. Con questo distacco, salvarsi «è quasi impossibile», ammette il nuovo allenatore Walter Mazzarri. Ma è proprio qui che inizia la favola. Mazzarri raduna tutti i giocatori: «Chi non se la sente, può andare via». Nessuno si muove. Il giovane e affamato Rolando Bianchi, soprannominato ‘Rolandinho’, forma con il carismatico Nick Amoruso una coppia gol devastante. Il brasiliano Mozart, dagli improbabili ricciolini biondi, dirige l’orchestra a centrocampo con il suo sinistro magico. La coppia di terzini Mesto-Modesto garantisce solidità al 3-5-2 di Mazzarri. Il giapponese Shunsuke Nakamura porta una ventata di classe ed esotismo, scatenando la ‘Nakamura-mania’. Perché questa squadra non è solo calcio: è identità, appartenenza, resilienza. Ciccio Cozza, capitano storico e bandiera con oltre 200 presenze, incarna questa filosofia. La squadra si compatta, diventa una famiglia. Sul chilometro più bello d’Italia inizia una cavalcata senza precedenti. La penultima giornata contro l’Empoli è da cardiopalma: sotto 3-0, la Reggina rimonta fino al 3-3 con una doppietta di Amoruso. Poi arriva un pomeriggio di maggio contro il Milan. Dopo il gol di Amoruso, il gregario Daniele Amerini sigla il 2-0 che significa salvezza matematica. Il Granillo esplode. Mazzarri ha «la faccia di chi è uscito da un anno vissuto pericolosamente». Il miracolo è compiuto. Negli anni successivi, la retrocessione in Serie B porterà la squadra a farsi inghiottire da debiti e scandali da cui non è ancora emersa.

A mano a mano…

Quando nel 1991 i fratelli Vrenna rilevano una piccola squadra di Seconda Categoria, l’A.P. Nuova Crotone, nessuno può immaginare che quella decisione segnerà l’inizio di una delle favole più belle del calcio italiano. In nove anni, i pitagorici ottengono sette promozioni. L’intelaiatura della squadra è affidata all’infallibile Beppe Ursino. Il direttore sportivo sembra avere in mano una bacchetta magica che gli permette di scovare ovunque giovani talenti e ottenerli in prestito a prezzi irrisori. È lui l’architetto silenzioso dei miracoli che verranno. L’ultimo, il più importante, arriva nel 2016, con la promozione in Serie A. L’entusiasmo dei pitagorici, però, si spegne presto. L’allenatore Jurić va al Genoa e i migliori partono. È una campagna acquisti sciagurata, almeno all’apparenza. Non è pronto neanche lo stadio, le prime partite si giocheranno a Pescara. Il nuovo direttore tecnico Davide Nicola eredita una squadra data per spacciata, con il monte ingaggi più basso della Serie A. L’esordio è un calvario, ma è proprio quando tutto sembra perduto che inizia il miracolo. Diego Falcinelli, arrivato in prestito dal Sassuolo, si trasforma in bomber da 13 gol. La sua doppietta che schianta l’Inter è di una perfezione geometrica, degna del teorema di Pitagora. È la partita che dà fuoco alle polveri. Nelle ultime nove giornate, l’impossibile diventa realtà. La Magna Grecia del calcio si palesa allo stadio Ezio Scida e il Crotone inanella venti punti, uno dietro l’altro. Dopo l’Inter, cadono anche Sampdoria e Udinese. Significa salvezza matematica e il tecnico Nicola manterrà la promessa: andrà in bicicletta da Crotone a Torino.

Aspettando il Messias

La favola del Crotone non finisce qui. Nel 2019 arriva un brasiliano con una storia incredibile: Junior Messias. Ex fattorino di elettrodomestici, scoperto nei campionati amatoriali, scala le categorie fino alla Serie A. Il suo sinistro magico e i suoi gol diventano il simbolo perfetto di questa squadra che non smette di stupire. Il Crotone, in città, rappresenta più di una squadra di calcio. Con una disoccupazione giovanile che veleggia oltre il 32%, una bassa qualità della vita che la inchioda nelle ultime posizioni di tutte le province italiane, ogni vittoria in campionato è un simbolo di riscatto. Ogni impresa impossibile diventata realtà è un messaggio di speranza. Quando l’inno di Rino Gaetano risuona allo Scida, non è solo una canzone: è la colonna sonora di un sogno di chi non si arrende e non vuole svegliarsi. Dal gol in rovesciata alla Juventus dell’africano Simy, il marcatore più prolifico del Crotone, fino alla retrocessione in serie B sarà un lento declinare. Triste, solitario e finale. Attualmente il club sta cercando di ritornare nella serie cadetta, ma annaspa con difficoltà sportive e societarie in serie C.

Quale futuro del calcio in Calabria?

Catanzaro, Reggio Calabria, Crotone: tre città, tre storie diverse che raccontano l’evoluzione non solo del calcio calabrese, ma della Calabria stessa. Oggi, mentre il Catanzaro cerca di ritornare agli antichi fasti, la Reggina lotta per la sopravvivenza e il Crotone tenta di risalire dalla Serie C, resta l’eredità di queste imprese: la dimostrazione che, anche in una terra spesso data per spacciata, è possibile costruire miracoli. Non importa se effimeri, perché hanno lasciato un segno indelebile nell’identità di un popolo che, nonostante tutto, non smette di sognare e lottare per emergere.