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09/06/2025 ore 18.11
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Spalletti esonerato, Nazionale nel caos: il calcio italiano è (di nuovo) al bivio tra crisi e rifondazione

L’esonero del ct non è solo una svolta tecnica: dietro c’è una crisi profonda del sistema, tra fallimenti sportivi, errori dirigenziali e mancanza di una vera visione culturale

di Francesco Gallo
Luciano Spalletti (Head coach Italy) Post match press conference during Qualifiers - Norway vs Italy, FIFA World Cup match in Oslo, Norway, June 06 2025

Ci risiamo. L’esonero improvviso di Luciano Spalletti – per quanto giustificabile e tardivo – spalanca le porte a nuova, drammatica crisi della Nazionale e del calcio italiano. Una crisi di risultati, certo, ma anche d’immagine. Sì, perché prima d’ora non si era mai visto un commissario tecnico lasciato talmente solo da comunicare in solitaria il proprio esonero in conferenza stampa. Così come non si era mai visto un allenatore andare in panchina da esonerato. Accadrà stasera, a Reggio Emilia, contro la Moldavia. Squallori e miserie del calcio italiano.

A memoria, si fa fatica a ricordare una Nazionale più inguardabile di questa. È stata una resa incondizionata quella degli azzurri di Spalletti. Dagli Europei alla Norvegia. Quasi ventitré partite di nulla, due anni di niente. Eppure, ricordo, quando Gravina lo strappò a De Laurentiis e ce lo presentò in pompa magna nell’agosto 2023. Tutti ci inchinammo ai suoi piedi, suoi e di Luciano, felici che fosse lui, proprio lui, l’erede del fuggitivo Mancini. E invece? Fuori negli ottavi agli Europei contro la Svizzera; eliminati in Nations League contro la Germania; bastonati 3-0 dalla Norvegia, e adesso un altro Mondiale pericolosamente in bilico. Sarebbe il terzo fallimento di fila, dopo Ventura (Svezia) e Mancini (Macedonia del Nord). Sarebbe una tragedia sportiva, sì, ma pure una pericolosa tendenza.

L’abate di Certaldo

«All’Europeo ho sbagliato io: ho riempito la testa dei giocatori di troppi concetti e sono stato troppo pesante. Adesso cambierò…». Ce l’aveva promesso Spalletti, l’abate di Certaldo, subito dopo l’eliminazione con la Svizzera. E noi gli avevamo creduto. Invece, come sempre, ha ricominciato dai suoi dogmi, dalle sue certezze (di Napoli), dall’unico metodo che conosce di interpretare il calcio. Anche perché, a poche ore dal suo addio, continua a ripetere: «Ho commesso degli errori, ma non so quali». Ennesimo esemplare di un gioco da lavagna, dove gli schemi sono più importanti degli uomini. Schemi che, come dimostrato ancora una volta contro la Norvegia, sono totalmente sterili, inutili, senza l’aggiunta del giusto nerbo agonistico. Lui stesso ha dovuto ammettere di aver messo su una squadra «arrendevole» con «atteggiamenti non adeguati all’importanza della partita».

Ecco cosa succede quando si dà troppa importanza agli allenatori, e troppo poca o non altrettanta ai giocatori. Può succedere – anzi, succede spesso – che i risultati negativi spingano sul rogo i tecnici, pagati per appagare e, se non ci riescono, per pagare. «Spalletti sconta solo ora il trasloco brusco da mister a selezionatore, mestieri diversi assai», come ha scritto il sempre puntuale Roberto Beccantini.

Crisi irreversibile del calcio italiano?

Mentre il dibattito pubblico si perde in soluzioni tecniche – dalla riduzione delle squadre in Serie A all’imposizione di quote per giovani italiani – viene ignorato il messaggio più profondo lasciato da Gianluca Vialli, che aveva già individuato il cuore del problema: «Vorrei che le società di calcio fossero più sostenibili dal punto di vista economico-finanziario, che non fossero sempre sull’orlo del precipizio, che ci fosse più fair play, che le società facessero più per la comunità, che il tifoso non fosse soltanto un cliente ma anche un partner veramente coinvolto nella vita della società. Vorrei creare un ambiente di lavoro in cui ci siano tanti valori e creare una cultura giusta per crescere come uomini e come giocatori».

Queste parole non sono solo un testamento spirituale, ma una lucida diagnosi di ciò che manca al calcio italiano: una visione che vada oltre i risultati immediati. La crisi della Nazionale è solo il sintomo più evidente di questa miopia culturale. In più paghiamo l’endemica mancanza di crescita dell’intero movimento. Un movimento sportivo che dovrebbe partire dalle scuole, dove invece l’educazione fisica è spesso ritenuta accessoria, una fastidiosa necessità. Ecco perché la sconfitta con la Norvegia, già destinata a suo modo a diventare storica, è il risultato di tante piccole occasioni perdute, di errori sicuramente evitabili da parte di tutti: Figc, società, presidenti, dirigenti, agenti sportivi, calciatori, televisioni e spettatori.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Analizziamo i numeri degli ultimi vent’anni. Dopo la vittoria ai Mondiali nel 2006, la Nazionale azzurra è stata eliminata ai quarti di finale agli europei (Donadoni, 2008), non ha superato il girone alla Confederations Cup (Lippi, 2009), non ha superato il girone ai Mondiali in Sudafrica (Lippi, 2010), ha perso 4-0 contro la Spagna in finale agli europei (Prandelli, 2012), non ha superato il girone ai Mondiali in Brasile (Prandelli, 2014), è stata eliminata ai quarti di finale agli europei (Conte, 2016), non si è qualificata ai Mondiali in Russia (Ventura, 2018), ha recentemente trionfato agli Europei, ma ha fallito per la seconda volta di fila la qualificazione ai Mondiali (Mancini, 2021-22).

Non sono andate meglio le squadre di club. Solo due vittorie in Champions League (Milan 2007 e Inter 2010), poi solo finali perse (Juventus 2015 e 2017, Inter 2023 e 2025). Soltanto negli ultimi due-tre anni abbiamo visto qualcosa di positivo, con le coppe (Conference ed Europa League) alzate dalla Roma (2022) e dall’Atalanta (2024). Nel mezzo, solo cocenti delusioni e pesanti sconfitte. E pensare che nel ventennio precedente, invece, abbiamo mancato l’appuntamento con le finali europee soltanto tre volte su venti. Sic transit gloria mundi.

E adesso, Ranieri?

«È la durata enorme dell’incertezza, che sembra doversi prolungare per giorni interi...», scriveva Dino Buzzati ne Il Deserto dei tartari, e credo non ci sia al momento citazione più appropriata per descrivere lo stato attuale del calcio italiano. Come il protagonista del romanzo, anche noi attendiamo una minaccia che forse non arriverà mai, perché il vero nemico non è esterno: è il nostro immobilismo. Lippi, Prandelli, Conte, Mancini, Spalletti – ogni esonero, ogni dimissione è stata seguita dalla stessa illusoria attesa del salvatore. Ma non è (solo) il tecnico a essere sbagliato: è l’intero sistema che, come la fortezza Bastiani del romanzo, resta immobile mentre il mondo cambia. Il nostro è davvero un deserto tecnico e culturale, e i “tartari” – le altre nazionali che ci superano – sono già qui.

Che fare, ora? Ranieri potrebbe essere sicuramente una soluzione adatta, capace com’è nel toccare le corde giuste nelle teste e nei cuori dei suoi giocatori e spingerli nel dare il meglio di se stessi. È accaduto ovunque, da Leicester a Roma, passando per Parma e Cagliari. Ma puntare nuovamente solo sull’uomo forte, su colui che tutto risolve con la bacchetta magica, sarebbe ancora una volta l’ennesimo abbaglio. L’ennesima occasione persa. Quella di sfruttare una sconfitta del genere per far ripensare tutto il nostro sistema sportivo, perché altrimenti diventa quasi ridicolo non raggiungere l’obiettivo, strapparsi i capelli dalla disperazione e poi il giorno dopo lasciare il sistema così com’è.

La scelta del prossimo allenatore non può essere ridotta a una semplice questione tecnica. Ranieri, o chiunque altro siederà sulla panchina azzurra, dovrà essere parte di un progetto più ampio di ricostruzione. La Nazionale non è solo una squadra di calcio, ma lo specchio di come un Paese interpreta lo sport. E forse anche la vita. Finché continueremo a cercare salvatori della patria invece di costruire un sistema virtuoso, continueremo a oscillare tra miracoli temporanei e lunghi periodi di crisi. Non è più tempo di soluzioni-tampone: o si ripensa l’intero movimento partendo dai valori che Vialli ci ha lasciato in eredità, o saremo condannati a ripetere questo ciclo di fallimenti all’infinito.